La leggenda statunitense: Sebadoh live a Ravenna
Per gli amanti dell’indie rock lo-fi di matrice americana i Sebadoh sono una specie di leggenda.
Probabilmente sono sufficientemente vecchio per averli ascoltati a tradimento in qualche passaggio di Stereonotte, sicuramente incollato alla radio nell’intento di catturare in una delle tante cassettine quante più perle musicali possibile.
È stato un autentico privilegio potere assistere ad un live dei Sebadoh, l’opportunità di vivere una parte di storia della musica in un momento in cui la fiamma del mito non si è ancora spenta.
L’icona lo-fi di Westfield ha aperto la nuova stagione invernale del Bronson di Ravenna il 25 ottobre nel migliore dei modi, con un’affluenza di pubblico eterogeneo in grado di tributare con adeguata passione la bravura di un gruppo importante e decisamente unico.
Se dovessi fare parte di una band così produttiva e longeva come i Sebadoh, la parte più difficile della preparazione dello show non sarebbero le prove in studio bensì la preparazione di una scaletta adeguata.
I Sebadoh se la sono cavata brillantemente preparando uno show molto compatto, in grado di portare equilibrio tra brani vecchi e nuovi e adattandosi alle due modalità di esecuzione con un irriconoscibile Lou Barlow (ormai sosia di Jeff Lynne) e Jason Loewenstein che si alternavano tra lead guitar e canto.
La duplice impostazione live di una band che va molto al di là di una semplice combo power-rock è stata l’autentica chicca della serata.
Se già i brani con Barlow alla voce funzionavano a meraviglia, sublimando alla perfezione un cantautorato lo-fi da manuale con Magnet’s Coil, Redbound e l’emozionante Skull, il cambio con Jason a voce e chitarra è equivalso a spingere la band in modalità Super Saiyan, palesando un talento talmente smisurato nell’esecuzione tecnica e supersprint di chitarra e basso da rasentare l’alieno, soprattutto rispetto agli standard a cui ci hanno abituato gli esponenti contemporanei di questo filone musicale. La voce di Loewenstein ha conferito un tocco ancora più grunge ed abrasivo a canzoni vecchie e nuove.
Sesso, rancore e agorafobia.
Sono questi gli ingredienti a cui i Sebadoh hanno attinto per cucinare quel tipo di alienazione post-adolescenziale creata per deliziare i loro fan.
“Una volta assumavamo droghe, ora ci scriviamo sopra. Il prossimo brano si chiama My Drugs. Ed è abbbastanza imbarazzante a dire il vero, perché si da il caso che dietro non ne abbiamo proprio. Ne avete qualcuna amigos? Niente di troppo pesante, ci basta un po’ di fumo…”.
Nella loro semplicità sembrano dei ragazzini.
Jason indossa una t-shirt vedre, barba di tre giorni e u cappellino da baseball, Lou porta una semplice maglietta bianca, senza loghi o scritte.
Capelli riccioluti e barba formano con gli occhiali quasi un’unica maschera.
Il batterista Bob D’Amico potrebbe passare come una sciupata controfigura di Scott Bacula, o forse una versione consumata di Capitan America, mimando di tanto in tanto con la bocca i colpi di cassa della batteria per tenere il tempo.
“Ancora qualche minuto e vi lasciamo alla discoteca. Scommettiamo che capiteranno cose incredibili. Tutto quello che potremmo suonare noi di disco sarebbe una roba anni ’70 tipo questa…” e accennano a qualche nota di Play That Funky Music.
I Sebadoh si sono mostrati felici della risposta che hanno ricevuto da parte del pubblico.
Il gruppo ha dato fondo a tutte le energie, senza concedere bis, dimostrandosi disponibile e socievole al banchetto allestito prestandosi a selfie e presentando ai nuovi fan le numerose produzioni musicali.
Il momento più emozionante della serata?
Per quanto mi riguarda, un’adrenalitica The Freed Pig, forte di quel riff di chitarra inimitabile in grado di imprimere a fuocouno degli episodi più intensi dell’alt-rock Anni ’90.
Se avete appena scoperto i Sebadoh e non sapete da dove iniziare, Sebadoh III è un ottimo punto di partenza: correte subito ad ascoltarlo.