Monopot – Something Is Like Nothing Was

C’è uno strano sentimento comune che anima la schiera dei guardoni sonori (della quale mi pregio da sempre di far parte) ed è quello che ci conduce, ogni volta che ci apprestiamo ad ascoltare un disco, a voler catalogare in qualche modo l’artista o l’opera che stiamo approcciando.

Alle volte questo esercizio di stile rappresenta una sorta di innalzamento dell’asticella della nostra autostima, talaltra il malato gesto di dover per forza congiungere a forza un pezzo di un mosaico che, a guardarlo bene, non si incastra con nulla.
Nel caso di questa misconosciuta dai più banda norvegese, i Monopot, si rischia di cadere proprio in questo inutile gesto: mettere la loro musica in un barattolo sul quale è apposta una etichetta sulla quale non sai che cosa scrivere. Matrice, questa, che è stata propria di tutti e tre i dischi hanno contrassegnato la loro esile carriera: “Zoon” pubblicato nel 1998, “Something Is Like Nothing Was” ‎del  1999 e infine “Optipess” del 2002.
È del disco di mezzo (a mio modesto parere il loro lavoro più significativo) che andremo ad immaginare un approccio in questa sede, esplorandone il lento incedere ed i ritmi rarefatti.

Già.
Perché è la staticità la vera miniera emotiva  di “Something Is Like Nothing Was”, perché il tempo non cambia mai, perché le vocalità sono piatte, le chitarre che pure evocano raffinati accordi, sembrano sempre sul punto di partire al fischio del capostazione, che non arriva mai.
Eppure.
Eppure alle volte soffocare ciò che immaginiamo dovrebbe aprirsi diviene strumento di piacere, non di castrazione.
È come aver deciso di raccontare l’Autunno.
Tutti sono bravi a raccontare l’Estate, l’Inverno, la Primavera.
Ma l’Autunno non lo vuole raccontare nessuno, se togli qualche decina di cantautori colti e malinconici, ma per una band raccontare l’Autunno va a significare suonare in slow motion, condurre accordi ed effetti ridotti al minimo, declinare traiettorie di necessaria tristezza.
Un po’ come, con altri colori ed dolori hanno raccontato nei loro lavori i Codeine piuttosto che i White Birch.

Ciò che rende impossibile staccarsi dalla carta moschicida di questo disco è la sua assoluta eleganza, la precisione con la quale apre le sue fauci slowcore, la  sensibilità con cui si racconta.
La loro è una strada sempre dritta, eppure i panorami a lato cambiano sempre di colore, di forma, di movimento.
I suoni di chitarra e basso, sottesi delicatamente dai battiti aperti dei tamburi e dai sussurri vocali formano il punto luminoso solido dell’universo Monopot.
Il loro racconto finisce per diventare una sorta di impercettibile muro di suono, che ti circonda e non riesci a vederlo, una notte che è affascinante pure se  nuda e senza stelle, e stai lì a mettercele tu, le stelle.
I riff di chitarra sono ridondati e semplici, e vengono ripetuti e ripetuti fino a quando non ti accorgi che ne sei sovrastato, da quelle bolle fatte di accordi sempre uguali, mentre a tratti piccoli, prudenti, fragili ritmi elettronici completano il quadro, andando a formare una sottile foschia sopra il paesaggio che i suoni primari hanno voluttuosamente formato.
È avanzare in salita, è scegliere di descrivere suoni in modo tenace, lento, depressivo, senza effetti speciali, proiettando se stessi attraverso sussurri minimali che rendono la band unica, singolare, suggestiva nello svilupparsi delle proprie storie.
È la rivoluzione monotona dei Monopot, che si manifesta per mezzo di un’opera che oscilla senza sussulti tra post-rock ipnotico, reflussi ambient e esplosioni noise “controllate”.
Che per questo riesce nell’impresa, laddove molte, troppe  band hanno fallito, di rendere totalmente attraente un genere musicale che se mal interpretato finirebbe per essere mortalmente noioso.
Un’impresa che sul mio personalissimo taccuino, come avrebbe detto il mitico Rino Tommasi, li rende meritevoli di questa mia piccola riscoperta.
Ascoltare piccole magie controllate quali ‘Chemical Intercourse‘, ‘Sundried‘, ‘Once‘, ‘Jasnaja Poljana‘ e ‘Sane‘ non potrà che portarvi alla conclusione che, talvolta, nella vita e negli ascolti, puoi vivere di trasporto emotivo anche senza bisogno per forza di inciampare.

Una piccolo curiosità per concludere: viene utilizzato nell’album un sample estratto dalla canzone ‘Something I Learned Today‘, scritta da Bob Mould e suonata dagli Hüsker Dü all’interno del loro disco “Zen Arcade”.

Artista

Monopot

Disco Something Is Like Nothing Was
Anno 1999
Etichetta Smalltown Supersound
Genere musicale post rock

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