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La Legge di Murphy è più forte di me

La legge del marketing è più forte di me

Sì, anch’io mi sono incuriosito e chiesto chi si celasse dietro quei cartelli ostentati da molti volti noti del panorama musicale alternativo italiano.
Giorni e giorni di post sui social, il solito tam tam sui gruppi che decretano il successo con conseguente memizzazione di qualsiasi fenomeno musicale.
Una sorta di ricerca tipo Liberato dei poveri, dove tutti erano già pronti a riscrivere su quei cartelli frasi di circostanza, freddure e controsensi.

“Se ne parli male purché se ne parli”, e forse anche queste mie riflessioni sono un modo di cadere in quella rete (o finire su quei cartelli).

La Legge di Murphy è più forte di me
Da sinistra: Dario Brunori (Brunori Sas), Maurizio Carucci (Ex-Otago) e Lodo Guenzi (Lo Stato Sociale)

Insomma, dietro la scritta «La legge di Murphy è più forte di me» si cela Cimini, cantautore cosentino che col suo terzo album uscirà con Garrincha Dischi.
Ormai l’etichetta de Lo Stato Sociale ha definito chiaramente il proprio target, sforna lavori a ciclo continuo ed ha anche un grande riscontro di pubblico.

Nella fattispecie credo che “il caso Cimini” ci dica chiaramente, qualora servissero altre conferme, quanto l’hype sia ormai di gran lunga più importante della sostanza.
La forma è regina, la sostanza serva.

La legge di Murphy‘ è un brano anonimo, il relativo video idem.
È una canzone onesta che si inserisce nel filone cantautoriale simil Calcutta ma, laddove possibile, con meno energia e meno estro.
Dopo qualche minuto dalla sua messa online ne era già disponibile una versione cover, ormai uno dei must per diventare fenomeno virale.
Ed è tutto così maledettamente giovane, tutto così social, tutto così inconsistente.

Il punto non è l’aver qualcosa contro Cimini e la sua musica, è solo una questione di amarezza – quella che sopraggiunge quando si prende atto dell’essere circondati da tantissimi musicisti (o sedicenti tali) e pochissimi artisti.

A sostenere il tutto, l’enorme diffusione di alcune dinamiche che si autoalimentano, formate per la gran parte di componenti non musicali ma che concorrono a creare un maremagnum in cui è sempre più difficile riuscire a distinguere prodotti di qualità.
L’offerta è talmente ampia ed indiscriminata da annebbiare la vista e l’ascolto.
La produzione è orizzontale, una sorta di universalismo produttivo che ha dato accesso a tutti alla realizzazione di un disco.
Un po’ come quando Massimo Troisi in una famosa intervista parlava degli scrittori: «voi siete in tanti a scrivere e io solo a leggere».

L’effetto di questa tendenza è stato perdere la bussola, disperdere più tempo nella scrematura in mezzo all’abbondanza della proposta finendo per tralasciare lavori che potrebbero meritare maggiore attenzione.
La viralità di un fenomeno, infatti, lo pone in cima alla lista e non sempre questo tempo d’ascolto è ben speso.
Non si può ascoltare una canzone senza che si sia creato attorno ad essa una qualche curiosità.
Gli stessi algoritmi di Youtube e Spotify creano circoli viziosi secondo i cui meccanismi piazzano in alcune classifiche dei parvenu spuntati dal nulla.

La legge del marketing, e di Murphy, è quindi più forte di noi.
Noi che nonostante tutto siamo qui a dover dire che una campagna ben architettata con l’uso dei testimonial giusti ci ha portato ad ascoltare una canzone di cui non sentivamo il bisogno e di cui non sentiremo la mancanza fra qualche settimana.

Per mutuare un’espressione cara ai commentatori del basket italiano, “siamo questi”.
Che poi è anche una domanda mista a rassegnazione: siamo questi?
Siamo davvero questi?
Il livello della musica italiana è questo?
Perché se prendiamo atto di questa circostanza allora vivremo anche meglio.
Rassegnati, certo, ma più sereni.
Più di questo non dobbiamo aspettarci.
Chi si accontenta gode, questo sembra essere il grande principio dietro la maggioranza delle produzioni musicali diffuse nei maggiori canali social e streaming.

Al momento fa male ammettere che vincono due a zero, sempre per citare qualcuno.

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