The Japanese House – Good At Falling

You were floating like a lilo
With your eyes closed, going where the tide goes
Caught in flux, you drifted ‘till you
Hit the sides
Hold my breath another minute
I can keep my head, there’s nothing in it
I’m a patient wave
And it’s an easy ride

Amber Bain, appena 23 anni, si è presa il suo tempo per tirare fuori un primo disco piuttosto atteso: “Good at Falling” esce dopo 4 anni di Ep, molti dei quali prodotti da George Daniel degli 1975.
In molti definiscono il suo genere sad synth pop, interessante definizione, forse la prima etichetta di genere che non trovo esasperata e limitante, ma reale ed inclusiva.

La musica di Amber è biografia essenziale e reale, così come ha raccontato in diverse interviste: «…faccio incubi ricorrenti, spesso molto violenti, per questo cerco poi di raccontare nelle mie canzoni qualcosa che sia quanto più vicina alla realtà, e durante i live cerco di chiudere gli occhi ed entrare in contatto empatico con il pubblico».
Il processo di creazione artistica è per lei doloroso, c’è chi, magari,  è diventato un “professionista” della composizione, ma te ne accorgi, lo senti e facilmente lo smascheri, Amber invece no: lei deve sentire, rielaborare e raccontare quello che incontra lungo la strada, forse anche per questo si è presa il giusto tempo per tirare fuori il suo primo Lp.

Il suo è un processo creativo accurato: nei brani spesso ci sono anche otto tracce vocali con tonalità diverse che si sovrappongono, come a voler cercare un’unica voce corale capace di raccontare con limpidezza la realtà; anche la scelta dei synth e della leggera elettronica figlia del dream pop non è mai casuale o scontata, o peggio, legata al gusto e o al sentire comune, segue un percorso, che nonostante la sua giovane età, Amber ha ben impresso.

“Good at Falling” se vogliamo è un disco circolare: si apre con ‘Went to Meet her‘ intro in cui la giovane artista ci introduce al suo mondo in maniera chiara e perentoria, lasciandosi aiutare da un elettronica austera e definita e si chiude con ‘I Saw you in a dream‘ bozzetto onirico e “cinematografico” in cui la realtà si confonde con il sogno, tutto si mescola e confonde, senza però mai perdere la fedeltà nei confronti della verità.
Potrebbe essere questo un tema ricorrente di “Good at Falling” tanto che in ‘Lilo‘ e nello, splendido, video la Bain recita al fianco della sua ex ragazza, perché il brano racconta di loro due, di un rapporto sofferto, che si evolve e finisce.
Maybe you’re the Reason‘ più solare e cristallina, ma solo nella scelta dei suoni e del cantato estremamente “pannato”, è un singolo trascinante, ma soprattutto un brano per cui artiste più blasonate e mature farebbero carte false.
We Talk all the Time‘ trasmette il senso del normale comunicare quotidiano, magari del parlarsi addosso, molto interessante l’incastro delle varie voci, sovrapposte, “laterali” a volte quasi solo sussurrate o accennate.
In ‘You Seemed so Happy‘ una chitarra acustica si insinua timidamente e anche questa cosa viene saggiamente incastrata in un suono che è uno e uno solo, cosa da non trascurare per il primo disco di una ventenne.
Menzione speciale poi per ‘Marika is Sleeping‘, prototipo di ninna nanna 3.0 riveduta e corretta in maniera estremamente personale e sentita.

The Japanese House al primo disco convince, basta lasciare il tempo alle canzoni e le parole di Amber di sedimentarsi, lei ci ha messo quattro anni (molte di queste canzoni sono state scritte già durante la produzione dei varie EP) noi prendiamoci, almeno, qualche giorno e magari ci servirà, come credo sia servito a lei.

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Giuseppe Gioia

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"E' dunque questa, la Nausea: quest'accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto, il mondo esiste, ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto."

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