Touché Amoré live a Milano: la violenza dell’amore

Dopo circa due anni di spasmodica attesa, ecco che finalmente, in un club della più profonda periferia milanese, il 9 febbraio si consuma una delle storie d’amore più intense: quella tra me e i Touché Amoré.

La formazione post-hardcore di Los Angeles arriva in Italia verso la fine di un estenuante e lunghissimo tour europeo in cui si sono fatti accompagnare dagli amici Angel Du$t.
Inutile dire che, a seguito della data del 2015, sempre nel capoluogo Lombardo, la band è riuscita a catalizzare l’attenzione di molti intenditori e amanti del genere creando una sorta di aspettativa mistica nei confronti di quello che sarebbe successo questa volta al Legend Club.

Formatisi nel 2007, i Touché Amoré si sono imposti come una delle band di riferimento della scena hardcore statunitense percorrendo una carriera di collaborazioni di tutto rispetto (La Dispute, Title Fight, Make Do And Mend per citarne alcuni).
All’attivo quattro album, di cui due diventati ormai monumenti sacri nelle camerette dei “sad guys”, tornano in Europa per presentare il neonato “Stage Four”, una sorta di requiem alla defunta madre del frontman Jeremy Bolm. Quello che colpisce di più, tralasciando l’indiscutibile carica emotiva dei testi, è l’atteggiamento propositivo, cordiale, disponibile e “polite” dei ragazzi, che non hanno bisogno di nessun tipo di fronzolo estetico o atteggiamento provocatorio per riuscire a conquistare l’attenzione del pubblico, anche del più critico.

La serata comincia alle 21 spaccate con gli Swain, formazione che propone un grunge molto più apprezzabile dal vivo che su disco, per niente fuori epoca, come il genere potrebbe suggerire, e con un frontman dai lunghi capelli fluenti.

Si prosegue con gli Angel Du$t, che, personalmente, non sono riuscita a capire completamente.
I volumi non hanno reso giustizia al punk crudo delle chitarre, lasciando così che la batteria prendesse possesso della performance. Entrambe le perfromances sono state abbastanza brevi ma sono riuscite comunque ad attirare l’attenzione della sala che, contrariamente alle mie aspettative, all’alba delle 22.30 ancora non è piena.

I Touché Amoré propongono una scaletta eterogenea, di circa venti pezzi, alternando successi degli album precedenti a qualche nuovo brano e alcune perle del passato – come ‘Honest Sleep‘, tratta dal primo album “…To The Beat Of A Dead Horse“.
I secondo pezzo è ‘~‘, che apre l’album del 2011 “Parting The Sea Between Brightness And Me”.
È un inizio che è un po’ anche un addio, come se il live volesse diventare esso stesso un requiem, un inno alla perdita di quel poco che nella vita rimane di importante.
La reazione del pubblico è violenta, autentica, sporca, come quella di un uomo impotente di fronte al lento disintegrarsi tra le sue mani della propria vita.
Jeremy Bolm è un profeta del dolore, in grado di captare e catturare le emozioni del pubblico per risputargliele in faccia cantando l’odio dell’amore o l’amore dell’odio, a dir si voglia.
È in completa empatia con la folla che, estasiata, non ha paura di lasciarsi andare e sente il bisogno di liberarsi per qualche ora delle proprie insicurezze.
A metà concerto circa troviamo ‘DNA‘, pezzo che suscita in me non poche turbe emotive: ci si lascia andare in un pianto liberatorio di fronte alla vita, come se fosse giunto il momento di dire addio ad un grande amore prima di intraprendere un lungo viaggio di distacco.
È un urlo di speranza, una corsa straziante verso il domani, una sorta di autolesionismo fisico e morale in cui il dolore diventa gioia di vivere e il fallimento, il rimorso, il rimpianto diventano uno stimolo per reagire ed affrontare la notte che sta per calare.

Dopo una serie di pause ed intervalli che sembrano più momenti contemplativi di riflessione e raccolta collettiva, parte l’ultimo pezzo, ‘Non fiction’: un’ovazione alla precarità dei rapporti umani e delle cose, una presa di coscienza di fronte all’inconsistenza della vita, una marcia funebre verso l’autodistruzione, un inno all’odio ma allo stesso tempo un grido di speranza.
L’ultimo abbraccio prima della fine di uno spettacolo che emotivamente sarà difficile da somatizzare.

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