The Stranglers, punk rock per anziani (ma non solo)
Ciampino (RM), 01 dicembre 2019
Certo, trovarsi ad un concerto degli Stranglers (data di nascita 1974) ad un soffio dal parto dell’Anno Domini 2020, difficilmente può non far scattare l’ipotesi nostalgia, sebbene questo sembri in antitesi all’idea, però oramai di lunga durata, del rock come live fast/die young.
E se è antitetica al rock, che sembra un termine davvero desueto e celentaniano per vetustà, pensate accostato al punk e ad una delle band più iconiche del punk rock inglese degli anni ’70 ed ’80.
Se poi ci aggiungi che l’apertura è affidata ai Ruts DC, una band che senza il Da Capo diede vita ad un solo album (“The crack”, 1979, disco meraviglioso) prima della morte davvero prematura del cantante Malcom Owen, per poi virare (col Da Capo e senza nuovi cantanti) da un punk fortemente venato di influenze reggae al dub urbano e coinvolgente di “Rhythm Collision”, assieme al dubmaster Mad Professor, la sensazione si acuisce.
E se è antitetica al rock, che sembra un termine davvero desueto e celentaniano per vetustà, pensate accostato al punk e ad una delle band più iconiche del punk rock inglese degli anni ’70 ed ’80.
Se poi ci aggiungi che l’apertura è affidata ai Ruts DC, una band che senza il Da Capo diede vita ad un solo album (“The crack”, 1979, disco meraviglioso) prima della morte davvero prematura del cantante Malcom Owen, per poi virare (col Da Capo e senza nuovi cantanti) da un punk fortemente venato di influenze reggae al dub urbano e coinvolgente di “Rhythm Collision”, assieme al dubmaster Mad Professor, la sensazione si acuisce.
E se poi, infine, si sceglie di far iniziare il live alle 20 di sera (una bizzarria rispetto ai tempi notturni dei concerti nella capitale) il gioco “rock per anziani” sembra fatto.
Eppure, a ballare e ad agitarsi (“pogare” mi sembra un termine francamente eccessivo) durante ‘Bayblon’s burning‘ o ‘Jah war‘, nonostante la fama dei Ruts DC sia sicuramente molto più circoscritta di quella che gli “Strangolatori” hanno raccolto in oltre 40 anni (più di 25 singoli nelle charts inglesi vorranno pur dire qualcosa), ai lati del palco ci sono anche dei ventenni, senza ovviamente spilloni e magliette di ordinanza ma molto partecipi ad una sorta di rito iniziatico, mischiati a sessantenni canuti e sovrappeso che non hanno mai perso la voglia di essere ‘contro’ in qualche modo e per sempre e di poterlo manifestare, anche in maniera festosa, nelle ‘sedi apposite’ dei concerti rock.
Concerto rock «in the middle of nowhere», come ameranno puntualizzare i musicisti dal palco.
In effetti siamo alle porte di Roma, in quel di Ciampino: c’è un aeroporto ma il comune fa parte di una ordinata suburbia di Roma, direzione Castelli Romani, e sebbene tra le periferie non sia certo la peggiore è certamente anonima e poco caratterizzata.
Concerto rock «in the middle of nowhere», come ameranno puntualizzare i musicisti dal palco.
In effetti siamo alle porte di Roma, in quel di Ciampino: c’è un aeroporto ma il comune fa parte di una ordinata suburbia di Roma, direzione Castelli Romani, e sebbene tra le periferie non sia certo la peggiore è certamente anonima e poco caratterizzata.
La partecipazione di youngsters (parlo soprattutto delle ventenni) non sfugge ovviamente neanche all’ultrasessantenne bassista JJ Burnel, vera icona della banda londinese – fisico asciutto e ben tenuto, atteggiamento da maledetto perenne, grande furbone dei palchi rock dell’ultimo mezzo secolo.
Se i Ruts DC macinano un set comunque riuscito per circa 40 minuti, gli Stranglers capeggiati da Baz Warne, alla voce da qualche anno (unico cenno interessante da biografia, un passato con quei cazzari dei Toy Dolls, band amatissima da tutti gli skinheads – ecco forse da dove viene la pelata) in sostituzione da ultimo della lista dello storico leader Hugh Cornwell (data dell’abbandono della band 1990) se la cavano ancora più egregiamente.
In un set di oltre un’ora e mezza riescono a riunire tutti i dischi storici, “Rattus Norvegicus” del 1977 e “Feline” godono di ampia passerella e di ovvio apprezzamento da parte di un pubblico, propenso alla generosità e a scaldarsi per poco.
In un set di oltre un’ora e mezza riescono a riunire tutti i dischi storici, “Rattus Norvegicus” del 1977 e “Feline” godono di ampia passerella e di ovvio apprezzamento da parte di un pubblico, propenso alla generosità e a scaldarsi per poco.
I contrappunti strumentali affidati alle tastiere di Greenfield sono quasi calligrafici quando evocano le tracce più conosciute del loro disco ‘alieno’ in salsa biblica “Meninblack (the gospel according to)” o del morbido e notturno “Feline” (siamo tra il 1981 e l’82): servono a riprendere fiato in mezzo all’infilata abbondante di ‘Peaches‘, ‘Get a grip on yourself‘, ‘Something better change‘, ‘Nuclear device‘, ‘Golden Brown’, la rilettura del classico di Bacharach in versione Doors di ‘Walk on by‘ e, soprattutto, l’ecologista ‘Always the sun‘ (forse la loro canzone più cantabile e cantata nel corso dei decenni).
E poi via via tutte le altre, fino al breve e conciso, nonché diretto come un treno ad alta velocità, ‘No more heroes‘, inno punk per eccellenza del periodo (qui siamo nel 1978).
Certo, la pompa non arriva come dovrebbe (amplificazione ed acustica del locale caotica, che penalizza un po’ la ‘botta’) e sinceramente in un rock act questo è essenziale ma la gente si è divertita un bel po’ e questo per la bocciofila punk mi sembra assai sufficiente.
Un nota personale, però, la devo aggiungere: in tanti anni di live non mi è mai capitato di tornare a casa da un concerto rock (o punk, fate vobis), prima di mezzanotte.
E senza aver perso neanche un anfibio.
E senza aver perso neanche un anfibio.
Vorrà dire qualcosa tutto questo?