The Maccabees live a Milano: l’esame di maturità

Quanti musicisti si chiederanno come si debba fare per arrivare al numero uno della classifica inglese degli album più venduti? Direttamente da Londra ce lo vengono a spiegare The Maccabees, al Fabrique di Milano, in un 3 febbraio tiepido al punto da sembrare quasi un febbrile o febbraggio. Il 2007 sembra ieri, le autorità britanniche del settore (li ricordo in heavy rotation su BBC6) etichettavano The Maccabees come una del band emergenti più interessanti del panorama indie, puntavano forte su di loro e io pure, e il loro disco d’esordio “Colour it in“, fresco e acerbo, aveva davvero qualcosa di nuovo e accattivante da regalare.

A distanza di quasi dieci anni e altri tre album, l’ultimo “Marks to prove it” uscito nel 2015, parliamo di un gruppo dal successo ancora in crescita, potenziali headliner dei più grossi festival estivi nello UK. The Maccabees sono chiamati a dimostrare la proprià maturità davanti al pubblico non esattamente strabordante ma estremamente carico del Fabrique, aperti con ampio anticipo dal connazionale Johnny Lloyd.

È con ‘Marks to prove it‘, pezzo che dà il titolo al nuovo disco, che The Maccabees si affacciano sul palco. Tre chitarre, cori brillanti, le luci stroboscopiche che mettono scompiglio, tanto basta per cominciare forte nonostante la voce di Orlando Weeks risulti un po’ assente. Per un po’ ci si destreggia tra ballate cariche di sentimento e ritmi mossi poco britannici e molto più latini, solo dopo ‘Ribbon road‘ eseguita molto in posa ma in modo attraente che si cambia registro. Da ‘Love you better‘ in poi The Maccabees cominciano a fare The Maccabees, uscendo allo scoperto con il loro suono distintivo e facendo protendere verso l’alto le braccia del pubblico.

Ci concediamo ancora un passo indietro, perché con ‘Precious time‘ l’opera di coinvolgimento e di connessione tra i due lati della transenna viene completata. Ben riuscita, sentita, cantata e partecipata, con un finale che spacca tutto, ci accorgiamo che The Maccabees non sono solamente belli ma pure efficaci. Inevitabile che torni un po’ il momento ammoscio, ‘Spit it out‘ suona malinconica e piacevolmente fuori fuoco, ‘Silence‘ è più fiacca, ma lo fa con classe. Il pubblico viene nuovamente accontentato grazie a ‘X-Ray‘, che pare suonata più per far piacere alla folla che non per scelta disinteressata, e dopo il finale barocco e sinfonico di ‘Grew up at midnight‘ giunge la fine del set principale all’insegna della manifesta non-allegria di ‘Something like happiness‘.

L’encore ricomincia da dove ci siamo lasciati, ‘WW1 portraits‘ suona ipnotica e low profile, il dovere aziendale di nuovo si impone su The Maccabees e arriva ‘Toothpaste kisses‘, con un bell’incedere e la partecipazione coreografica della platea, ma un esecuzione a corto di pathos. Il finale dei finali è per ‘Pelican‘, che somiglia un po’ a un bagno di folla, brillante e coinvolgente ma non viene caricata troppo.

The Maccabees sanno divertire ed emozionare, ma per fare questo hanno rinunciato ad alcuni elementi peculiari, il timbro vocale di Orlando Weeks risalta poco, e certe chitarrine caratteristiche fanno capolino di tanto in tanto. L’esame di maturità si conclude con esito positivo e voti quasi pieni, ma la loro identità finisce in secondo piano, ed è un peccato perché quando vengono allo scoperto con i loro tratti caratteristici è una soddisfazione per tutti.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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