Nothing, scosse ondulatorie a testa alta

Milano, 26 novembre 2018

Iniziamo con un salto indietro di quindici giorni per una domanda: perché siamo qui a Milano, al Circolo Ohibò, ad assistere al concerto dei Nothing?
Un paio di settimane fa, approfondendo un interessante articolo di Pitchfork sui 50 migliori dischi shoegaze di tutti i tempi e ascoltandoli uno ad uno, mai avrei pensato di imbattermi in gruppi contemporanei capaci di destare reale interesse, al cospetto di mostri sacri del riverbero e delle pedaliere.
Al numero 48 mi si sono invece drizzate le orecchie con “Tired of tomorrow”, e andando a scavare su questa band, dal nome assolutamente ostico per i motori di ricerca, ho scoperto che i Nothing vengono da Philadelphia, che sono assolutamente contemporanei, con l’ultimo album “Dance on the blacktop” pubblicato da pochi mesi, e che di lì a poco sarebbero stati in tour in Italia.
Mai tempismo fu più opportuno.

Nothing
Ci troviamo così al cospetto dei Nothing, le cui intenzioni sono chiare già da alcuni dettagli che si possono scorgere sul palco ancora vuoto: un amplificatore Orange e numerosi asciugamani pronti all’uso, da cui non ci si può aspettare altro che distorsioni e sudore.
L’ingresso è in punta di piedi, con un arpeggio morbido e riverberato che piano piano sfuma in un muro di suoni.
Zero day‘ è un assembramento di suoni che intasano le frequenze, la voce è un po’ distante, l’atteggiamento del gruppo sul palco è dinamico e lontano da quello degli shoegazer duri e puri.
Dalle sabbie mobili del suono emergono le linee degli strumenti, primo fra tutti quello della batteria, e in una simile concentrazione risulta un po’ sacrificata la parte vocale.

I Nothing fanno prendere forma alle vibrazioni, adagiandole su una linea di fondo che appare quasi melodica. Non si lasciano prendere la mano dall’enfasi nemmeno nei passaggi e nelle chiusure aggressive che mantengono una forma propria dai contorni definiti. Il basso alza l’asticella, la batteria incoraggia e la trama ben delineata delle chitarre fa il resto. L’atmosfera è leggera, vagamente allegrotta, in contrasto con la greve incisività del suono. Non ricorrono a vistose elaborazioni, se non con l’estensione delle vibrazioni. In alcuni passaggi, il tiro è grezzo, roba di altri tempi, di altri decenni e con influenze che vanno al di fuori del loro orticello.

Il quadro che dipingono i Nothing diventa completo quando le voci, prima e seconda in combinazione, prendono corde più alte. Gli intermezzi, funzionali all’accordatura delle chitarre, sono affrontati con una certa simpatia in slow motion. A tratti, qualche feedback buttato qua e là appare come una sorta di status symbol del genere. Quando prendono il passo veloce, suonano coinvolgenti ma non mostrano grosse peculiarità. Le teste sui pedali vengono chinate con parsimonia, ma quando lo fanno tutti insieme creano un’onda travolgente.

I Nothing caricano a pallettoni gli amplificatori per il finale tra ‘Blue line baby‘ e ‘(Hope) Is just another word with a hole in it‘, con volume e riverbero, linee semplici ma al tempo stesso dalla portata greve, specie nella decisione di alcuni attacchi. Lasciano gli strumenti a fischiare davanti alle casse per l’uscita dal palco, e al rientro vengono travolti dalla bordata dei loro stessi feedback. La bomba finale di ‘Eaten by worms‘ declina in una passeggiata tra il pubblico di Dominic Palermo, chitarra e microfono in mano, senza ritorno, per una chiusura con un picco di scosse ondulatorie che fa la gioia di tutti i sismografi della zona. Un concerto ad alta frequenza, quello dei Nothing, una vibrazione di shoegaze contemporaneo che fa tremare Milano per una serata.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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