Un groove che impedisce di stare fermi: Tame Impala live a Verona

I Tame Impala scelgono Verona per la chiusura delle tre date italiane, nella cornice intima e affascinante del Teatro Romano. Una location non propriamente votata al rock, ma che ben si presta alle sofisticazioni visive e sonore della band australiana guidata dal genio, sempre più in grande spolvero, di Kevin Parker.

L’apertura è affidata a un ex-membro del gruppo stesso, Nicholas Allbrook, che si presenta in solitaria sul palco con salopette, espadrillas e un casco di riccioloni e lo stesso eclettismo e la stessa dose di bizzarria vengono sfoderati nella sua esibizione. Interessante, rumorosa, in alcuni passaggi molto più che sperimentale, una scelta originale e azzeccata per scaldare la platea.

Un fascio verde di cerchi di luce proiettati sullo sfondo, fino ad assumere le sembianze di un fiore, preannuncia l’ingresso dei Tame Impala. Ancor prima di iniziare, Kevin Parker raccomanda caldamente al pubblico intero di alzarsi in piedi, e costringe letteralmente chi risiede ai piani bassi ad avvicinarsi al palco, perché ha bisogno di sentire il calore. Non male come dichiarazione di intenti.
Viene proposta l’identica scaletta delle tappe precedenti a Sestri Levante e Roma, collaudata ed equilibrata, studiata per non far calare mai il tiro. C’è curiosità di capire la resa dei pezzi di ‘Currents‘, ma anche il timore che un concerto troppo incentrato sull’ultimo album possa lasciare perplessi i fan dello zoccolo duro. La ripartizione dei brani è invece quasi perfetta sui loro tre dischi, in un percorso dall’andamento irregolare ma senza peccare di incoerenza.

Aprono nella stessa maniera in cui si apre la loro ultima fatica, una lunga ‘Let it happen‘ che ci permette subito di prendere le misure: ottima esecuzione, leggermente più sporca della versione in studio, per un impatto migliore, da un lato il groove che ti impedisce di stare fermo, dall’altro la presenza carismatica eppure mai sopra le righe del front-man (o secondo qualcuno, il vero one-man). ‘Mind mischief‘ e ‘Why won’t they talk to me?‘ mettono tranquilli i fan di ‘Lonerism‘, l’atto più rock del lustro di carriera dei Tame Impala e che meglio si presta ai live. Non si avvertono forti discontinuità in questi salti, che risultano invece molto più evidenti ascoltando i diversi dischi, e i passaggi sono morbidi. Fa eccezione, come è giusto che sia, quel pezzone trascinante di ‘Elephant‘ che mette a repentaglio l’integrità del Teatro Romano, con la folla scatenata che rischia di combinare quello che duemila e passa anni storia e invasioni di ogni tipo non sono riusciti a fare.
Equamente diviso tra il primo e il terzo disco il proseguimento, quasi a coronare la chiusura di un cerchio tra ‘Eventually‘ e ‘Why won’t you make up your mind?‘, prima dello stacco finale della chiusura di ‘Apocalypse dreams‘. Distorsioni prolungate, effetti come se piovesse e l’uscita dal palco ad amplificatori ancora urlanti, con un boato del pubblico nei confronti del tecnico che esce e spegne il riverbero, perché se ne vuole ancora.

È solo chiaramente il preludio all’encore, affidato come tutti i passaggi chiave a ‘Lonerism‘, prima con quell’altro brano da terremoto emozionale e fisico che è ‘Feels like we only go backwards‘ per poi chiudere con l’atmosfera eterea di ‘Nothing that has happened so far has been anything we could control‘, che potrebbe essere durata sei minuti come dodici oppure o diciotto, nessuno saprà mai dirlo con precisione anche perché nessuno stava guardando l’orologio in quel momento.

Che ci si dovesse aspettare un grande show era ampiamente prevedibile, a livello musicale e a livello di preparazione, per non parlare dell’imponente effetto scenico visivo, il cui merito va diviso tra la location e l’utilizzo magistrale delle luci. Che i Tame Impala, e Kevin Parker su tutti, fossero così vicini al pubblico e non suonassero su un piedistallo fisico e virtuale non era invece per nulla scontato, ma i fatti hanno dimostrato che il sold out e l’adorazione da parte di audience in costante visibilio sono stati più che meritati, e chissà se pensa davvero che “Verona is my new favourite place in the world“.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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