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Un sogno chiamato ‘Reflektor’: Arcade Fire live a Roma

I passeggeri degli aerei diretti a Ciampino che hanno sorvolato il cielo di Capannelle la sera del 23 giugno tra le dieci e mezzanotte devono aver pensato che quello che stava accadendo a distanza di migliaia di metri dai loro occhi fosse qualcosa di veramente straordinario.
E infatti lo è stato.
Uno show come non se ne vedevano da un pezzo, quello a cui hanno dato vita i canadesi Arcade Fire per il concerto nell’ambito della rassegna annuale Postepay Rock in Roma.
Uno spettacolo illuminante, nel vero senso della parola.

A fare da opener alla prima delle due date italiane del Reflektor Tour (la seconda e ultima tappa è il Castello Scaligero di Villafranca di Verona) gli americani Antibalas, freschi di rientro dal Primavera Sound di Barcellona.
Sonorità afrobeat i cui strascichi si protraggono dopo la loro uscita di scena, quando, puntuale alle 21.45, sul palco dell’Ippodromo si materializza la grande famiglia Butler.
Un’orchestra al completo «intrappolata in un prisma, un prisma di luce» che irradia, come per magia, suoni, colori, emozioni potentissime: chitarra, basso, tastiere, batteria, xilofono, violino, campane, maracas, cori, synth; percussionisti rastafariani e in versione Village People (con tanto di berretto da poliziotto in testa) e sassofonisti ballerini coordinati alla perfezione.
E loro, la fake band nota come The Reflektors: quattro grandi fantocci di cartapesta ad introdurre le note di Rebellion (Lies).

«This is our first time in Rome and we’re fucking happy to be here!».
Il pubblico si scalda in men che non si dica e Win Butler non esita a infiammarlo ancora e ancora.
Ecco che si parte con il nuovo album: Normal Person, prima, poi la title track Reflektor.
È il tripudio dell’ «era riflettente».
Fasci di luce provenienti da ogni dove: dai fari e dagli specchi posti sopra al palco, dai monitor sul fondo, dai piccoli dischi argentati disseminati sugli strumenti, dai microfoni bianchi, dai vestiti  sgargianti dei musicisti, tutti lustrini e paillettes.
La Regina (di nome e di fatto) Chassagne è splendida, fasciata in un abito lungo tempestato di brillanti, smagliante non quanto il suo sorriso.
Sullo sfondo visual ad alto potere lisergico si alternano ad immagini alterate del concerto che si sta svolgendo: bianchi e neri iper-contrastati, sovraimpressioni e un enorme orsacchiotto luccicante che sembra venir fuori dallo schermo.
La primissima parte del live è tutta incentrata sull’esecuzione di brani contenuti nell’ultimo e nel primo disco della band (quel Funeral dell’esordio che svettò immediatamente in cima alla classifica dei migliori album degli anni 2000), quali Flashbulb Eyes, Neighborhood #3 (Power Out) e ancora Rebellion e Joan of Arc.
Subito dopo è la volta di quel discone di The Suburbs; Butler e soci inanellano una terna da brividi con Month of May, The Suburbs e Ready To Start.
La tensione è alle stelle, ma non basta.
Dopo Neighborhood #2 (Laika), No Cars Go e la splendida We Exist, la band di Montréal infligge ai presenti il colpo di grazia con una continuous version di My Body Is a Cage (da Neon Bible, 2007) e Afterlife, con tanto di Reflektor Man che si aggira sul palco inondando gli astanti di luce riflessa.
E proprio quando ci si convince di aver toccato il vertice emozionale della serata, subito dopo una brevissima pausa a seguito di un’ora e mezza filata di concerto, la band stupisce tutti con una special guest d’eccezione: sul palco irrompe un enorme pupazzo del Pontefice, sorridente e imprevedibile interprete di Pie Jesu e Here Comes The Night Time, prima che il suo testone venga deposto in cima all’asta di un microfono e una pioggia di festoni e coriandoli colorati sparati a tradimento da ogni angolo del parco ci sommerga e ci esploda nel cuore.

«Thank you for your energy!», ringrazia Butler senior.
Chiude, previa esecuzione di Keep the Car Running, una versione acustica di Wake Up che ci lascia adoranti e disorientati e ci invita all’uscita da un sogno da cui nessuno dei presenti vorrebbe svegliarsi.
Ma ce la faremo, «se strilliamo e urliamo forte finché non risolviamo tutto» possiamo farcela.
«We scream and shout ‘till we work it out».

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