Lili Refrain, il portale magico di un nuovo mondo

Un viaggio primordiale tra suoni, danze e linguaggi ancestrali

La performer romana torna sul palco del Largo Venue con un concerto che sembra un rito di iniziazione al suo sound

 

«In un remoto passato, il dio dell’uragano decise di lasciare la propria dimora per andare a devastare la terra. Sua sorella, la dea del sole, sconvolta e terrorizzata si nascose in una caverna, ripromettendosi di non uscirne più. Calò sul mondo un buio totale, i diavoli uscirono dai loro nascondigli per girovagare indisturbati sulla terra. Tutto il creato era destinato a soccombere sotto le ire del dio della tempesta. Mentre gli dèi cercavano una soluzione per convincere la dea del sole a uscire, si fece largo una piccola vecchia e piena di rughe, che dichiarò che sarebbe riuscita a far uscire la dea del sole dalla sua caverna.
Si avviò verso un’enorme botte di sakè, la capovolse e ci salto sopra, iniziando a danzare selvaggiamente, senza controllo. I suoi piedi si muovevano freneticamente con un ritmo martellante, producendo un forte e violento suono mai sentito prima.
Quel ritmo frenetico e incalzante cominciò a coinvolgere anche gli altri Dei, che cominciarono a muoversi, ballare e cantare. Quel suono così forte si propagò per tutta la terra, tanto che, la dea del sole, non poté fare a meno di affacciarsi dalla caverna e, vedendo tutti quei volti gioiosi, ritornò sulla terra ridandole finalmente la luce»

Tratto da “Il taiko, tra storia e leggenda” 

Solo una cosa mi mette più ansia di un nubifragio con una tempesta di fulmini: un nubifragio, con tempesta di fulmini, mentre cerco un parcheggio a Roma dalle parti di Largo Preneste quando non ho giacca da pioggia o ombrello in macchina.
Solo un’altra cosa funziona in questi casi come kryptonite verde per la mia inquietudine: trovare non uno, ma due posti macchina.
Il primo davanti a un locale che si fa perdonare l’uso del termine “bistrot” proponendomi all’attenzione un panino con porcini freschi, burrata e scampi di Mazara del Vallo e un dignitoso pinot grigio.
Il secondo, a cinque minuti a piedi dal Largo Venue, dove Lili Refrain presenterà il suo nuovo disco “Mana”, uscito per Subsound Records.
Smette anche la tempesta tropicale.

Già che siamo in tema, un sostanzioso antipasto alla sua esibizione è dato dall’opening degli Juggernaut.
Sostanzioso è un’approssimazione per difetto.

Juggernaut
Juggernaut

Apro la porta del locale e sono spazzato via da uno tsunami di suono, carne e sangue.
La prima cosa che penso è di essere troppo vecchio per il livello di decibel della sala; mentre la prima cosa che dico è irriferibile.
Brani d’impatto devastante, ma parimenti curati e raffinati nelle scelte sonore e di arrangiamento.
Volumi estremi, che tuttavia non penalizzano la qualità, l’equilibrio e la pulizia dei suoni.
I pezzi sono strumentali, tiratissimi con momenti più rarefatti che fungono da ulteriore slancio in avanti.
Le due chitarre, basso e batteria sono macchine indiavolate, si muovono in ambito metal/prog/math rock.
Una descrizione alternativa altrettanto li definirebbe come un Maglev, treno giapponese di ultima generazione in grado di raggiungere i 500 chilometri all’ora, che arriva in piena pancia.
Arrivati al momento dei saluti e dei ringraziamenti, io sono ancora al mio posto.
La carta d’identità non è ancora del tutto spietata.
Sono pronto per Lili Refrain.

Per l’artista romana la data del Largo Venue è un ritorno a casa, dopo un’estate passata a portare la sua musica in giro per l’Europa, salendo sui palchi di festival come l’Hellfest e il Roadburn e costruendosi un crescente e consistente consenso e seguito internazionale.
Una premessa: vidi Lili Refrain nella primavera del 2019.
La ricordo come una sacerdotessa delle chitarre, signora di forze della natura che trasformava in musica.
Ho davanti a me l’immagine di un live a tinte forti e oscure.
Una cerimonia wicca in cui protagonista era la sua capacità di costruire cattedrali gotiche di note, liberando dalle mura di queste dei gargoyle sonori, oltre a una non comune padronanza tecnica sia delle chitarre, che dell’utilizzo magistrale degli effetti, loop su tutti.
È vestita di nero e argento, con una maschera nera, rossa e bianca dipinta sul viso.
Suona ripetutamente una campanella, i movimenti sono lenti, armoniosi e cadenzati.
Una chiamata per il rito che si sta apprestando a celebrare.
Con i loop crea immediatamente quell’atmosfera magica e incantata.

Lili Refrain
Lili Refrain

Questa sera le chitarre sono relegate a un ruolo di contorno.
Nel suo nuovo lavoro, Lili Refrain ha avuto voglia di mettersi in gioco abbandonando le sicurezze di ciò che per aprirsi a nuove sonorità e a nuovi linguaggi, e intraprendere un percorso consapevole di scoperta e di approfondimento incentrato sulle percussioni.
Sulla sua sinistra troneggiano un timpano e un Taiko, il tamburo giapponese, principale protagonista della sua performance.
Lo spettacolo si fa coreografia, movimenti plastici e armonici riempiono la scena, diretta conseguenza dello studio della disciplina del kung fu.
Sugli intrecci ritmici percussivi, entrano i synth e la sua voce.
Oscura e profonda diventa cristallo celeste, in un gioco di contrasti che celebrano un inno al notturno, o al ciclo di vita di una stella che collassa per poi esplodere come una supernova.
È la celebrazione di una nascita da una morte, la rappresentazione di un battesimo sull’altare di un nuovo sistema solare.
È una musica fatta di contrasti a tinte forti.
Dalle sonorità sulfuree del black metal, la forma d’onda e le frequenze del suono si permeano di nuova energia purificatrice e ci conducono nell’empireo, in mondi che ricordano quelli mirabilmente tratteggiati nei lavori dei Dead Can Dance.

La performer parla una lingua antica, preesistente alla comparsa dell’essere umano, chiama a raccolta poteri di altri tempi ed epoche.
Danza e percuote il Taiko come sacerdotessa buddhista in una pagoda.
Abbandonarsi al loro flusso delle ritmiche ossessive e tribali vuol dire abbeverarsi con l’acqua del Lete, fiume mitologico dell’oblio, e lasciare che la nostra anima cancelli ricordi e affanni della vita terrena.
Le chitarre dal sustain infinito spalancano porte su cieli infiammati e abissi infernali in cui immergersi, per poi risorgere e purificarsi.
Tappeti di synth, crescendo infiammati, poliritmi, vocalità ancestrali, chitarre che ossessivamente doppiano la follia percussiva e improvvisamente tutto va a spegnersi in un morbido sussurro della voce.
Chi come me ha tra i brani della vita ‘Three Days‘ dei Jane’s Addiction non può non cadere in adorazione. 

C’è spazio anche per un pezzo che emerge dal suo passato, ‘Nature Boy‘, tratto da “Kawax”, raccontata come una canzone d’amore.
Il brano è costruito esclusivamente su armonizzazioni e loop della voce, che passa agevolmente da un registro più lirico a striature più blues.
Si arriva in fretta alla mezzanotte, come da diversi anni ormai accade, le ordinanze municipali che trasformano le carrozze in zucche e i cavalli in topi esigono lo stop.
C’è tempo per un ultimo, velocissimo bis prima di “prenderci insieme una cosetta al bar” come chiosa l’artista.
È una dolce dedica di compleanno, ‘Earthling‘, la sua canzone karaoke.
Preghiera semplice, sincera: ringraziamento e promessa d’amore alla natura e alla Madre Terra.
Fuori continua a non piovere.
E se si alzano gli occhi forse si riesce a intravedere qualche stella.
E senza ombrello e giacca da pioggia, Madre Natura la ringrazio anche io.

Lili Refrain
Largo Venue
Roma, 29/09/2022

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