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Colle der Fomento e Il Muro del Canto, insieme a Roma contro l’indifferenza

Roma, 16 febbraio 2020

Roma è la città dove tutto si intreccia; le urla dei passanti si mescolano con il silenzio degli edifici storici, il Tevere lentamente scorre e divide, l’antico resiste e si fonde al nuovo, culture diverse si confrontano quotidianamente.
Una città che è diventata nei secoli un vero e proprio simbolo della condizione umana; come una sirena omerica, il suo canto ha sempre ammaliato scrittori, poeti e cantastorie richiamandoli da ogni parte del mondo.

Autori che, dopo aver visto la Città Eterna, hanno sviluppato sentimenti differenti: chi l’ha odiata, chi l’ha amata, chi l’ha criticata e chi l’ha cantata. 
Stendhal, Goethe, Zola, Gadda, Belli, Trilussa.
Tutti hanno come comun denominatore proprio la Capitale italiana e ognuno di loro è riuscito a cogliere sfumature differenti della città.
Infatti si potrebbe affermare che i profili di Roma realizzati dai grandi autori altro non sono che descrizioni delle sue molteplici facce, quasi a indicare ogni volta una città a sé; la Roma papalina, la Roma classica, la Roma fascista, la Roma umbertina, la Roma rinascimentale: in ogni epoca storica questa città si è nuovamente rivelata con spiccate caratteristiche.

Esiste inoltre anche una città fatta di esperienze, quelle più popolari e che si realizzano nello sviluppo di vere e proprie contrade e quartieri, ognuno con una sua forte identità.
Due gruppi che, da sempre, hanno cantato le gioie e i dolori di chi vive questa città in maniera viscerale, sono saliti insieme su un palco d’eccezione – quale l’Auditorium di Roma – per celebrare il Tempo, vero protagonista di questa serata.

Il tempo passa per tutti: 25 anni di Colle der Fomento, 10 anni di Muro del Canto, che si riuniscono per presentare al pubblico romano le loro ultime fatiche – rispettivamente “Adversus” e “L’Amore mio non more”.
Mentre questo gigante scorre veloce senza sosta, le società cambiano, le persone invecchiano, le priorità di una volta diventano frivole alla luce di un nuovo giorno.
Il tempo è un po’ il tema centrale di questo concerto-elogio di una città che sa ascoltare.
Una città che è lei stessa espressione del tempo che, pur modificandola continuamente, non la cambia mai e resta sempre la stessa.
Perché in questa Roma scanzonata, tutto e tutti hanno un posto.

“Brutti, sporchi e cattivi”.
Questo il nome di un evento che, sotto l’immutabile cielo romano, ha davvero riunito tutti.
Giovani e vecchi, uomini e donne, di ogni estrazione sociale, nessuno escluso.
C’è la signora ingioiellata di Roma Nord, il barista di Trastevere che dice di aver chiuso prima il locale per venire al concerto; il giovane studente universitario di Tor Vergata che si è fatto un’ora e mezza di trasporto pubblico.
Questa è Roma, compressa in una sala dove, di solito, suonano concerti di musica classica.

Sono le ore 20.50 circa.
Tra le gallerie c’è un via vai di gente che si riconosce: mani che si stringono o sguardi che si salutano in lontananza.
Poi le luci si abbassano ed entrano in scena Daniele Coccia (voce), Alessandro Pieravanti (batteria e voce narrante), Ludovico Lamarra (basso), Alessandro Marinelli (fisarmonica) ed Eric Caldironi (chitarra).
Ciechi applausi riempiono una sala già stracolma di persone.
Eccola, dunque, la Roma che un po’ spaventa anche: la Roma “una, nessuna e centomila”, vasta città popolata da uomini soli e che spesso non si interessano della solitudine degli altri. Una città maledetta, sì…. ma:

«la Roma che ci fa paura, è la Roma indifferente».

Il Muro del Canto

Roma è in questo caso un emblema, per descrivere un intero popolo, afflitto da problemi che sono in gran parte riconducibili proprio a questo grande mostro che è l’indifferenza.
E come non hanno mancato di sottolineare sia nei testi sia durante il concerto, forse un po’ ce la meritiamo la gente che votiamo.
E loro, parlando a nome di una intera città, rinnegano chi è sceso in piazza votando la Lega.
Tuttavia c’è sempre una speranza, nonostante il buio c’è sempre la Luce.

«Se tu m’amassi,  lo zero che sono sarebbe cento… pure de più».

C’è qualcosa che ti fa tremare le vene nei testi del Muro: sarà quel cuore così sgangherato e ruvido che sprigiona poesia, saranno quelle parole così crude e vere che entrano sottopelle.
Il brano è una vera e propria dichiarazione d’amore, forse verso una donna, verso la musica, verso la Vita stessa e – senza dubbio – verso il pubblico presente.
E, per scongiurare questa maledetta indifferenza, ci chiedono di parlare con loro, di non essere vuoti – dinonesseremorti; è una forma di (R)esistenza, quella del Muro: custodi di un sentire popolare che sviscera ogni emozione, ogni sentimento.

Poi chiamano sul palco Andrea Ruggiero, primo ospite al violino, intanto che le luci sul palco tornano scarlatte.
È il tempo di un altro brano.

«O Madre delle Lame che non sai perdonà. M’hanno trafitto er core e so’ rimasti a guardà».

E mentre quel violino, come una lama nel petto, segava dentro fino alle ossa, il pubblico restava immobile.
Senza fiato, seduto ad ascoltare quello che i nostri bardi di un’osteria dei frati senza tempo hanno da raccontarci.
Come la storia di Antonuccio.
Per questo, se dovessimo descriverli una parola, potremmo definirli cantastorie.
Che a Roma ha quell’accezione un po’ negativa e invece va riportata in auge per la bellezza della sua semplicità.
Perché è quello che fanno: ci narrano delle storie e non ne hanno alcun timore.

Non si tirano mai indietro in questo.
E lì canti, sentendoti parte di qualcosa di meraviglioso e nascosto, celato dalle meraviglie di una città violata.
All’inizio il pubblico era un po’ ingessato, timoroso di quella location così alta, così imponente.
Stoica, come il brano seguente.
Un testo struggente, un tocco aspro sopra il cuore, una mano leggera che si posa sulla spalla.

«E la mia vita è bella come quando il cielo è nero e fuori piove. Ma il cielo resta blu sopra le nuvole».

Ce la regalano in una versione più rockeggiante, e leggermente più veloce.
Ma sempre tardoromantica.

Avete presente quando, camminando per strada al freddo, vi colpisce il sole?
Vieni scaldato da raggi familiari, avvolgenti e ti senti meno solo.
Questo è stato l’effetto del pezzo successivo.

«Ma l’amore mio non se sa mai, s’è fatto er nido andò casca la sera».

Quell’amore, come un piccolo pettirosso, delicato, fragilissimo, circondato dai dolori della vita, da serpi che possono ferirlo nel tempo. Ma quel dolore non è niente, non è speciale.
E intanto l’amore, leggero leggero, s’innalza.
E mentre lo stornello si leva in alto, nessuno può resistere più.
Le persone si alzano  iniziano a ballare: una piccola magia è stata fatta. Non c’è più timore di quella sala così sofisticata.

La cosa bella di scrivere delle storie è narrare alle persone.
Scorgere lo stupore negli occhi di chi ascolta.
Glielo vedi nello sguardo, che sono stati portati lontano.
Che la musica li ha presi per mano e si sono incamminati con Lei.
Quando lo storytelling si lega alle note… diventa Muro del Canto.
Sono tanti i grandi temi affrontati dal gruppo durante l’esibizione: il tempo, l’amore, la nostalgia, la tradizione, la morte.
L’Urbe diventa una fonte inesauribile di storie: città-palcoscenico che mostra la vita nuda e quotidiana e che ispira gli artisti di ogni tempo. Ave, Roma. Moriturus te salutat   per dirla alla Andrea Sperelli di D’Annunzio.

Cantano per esorcizzarla un po’, questa morte maledetta.
E con versi sanguigni ci accompagnano in fiabe senza tempo, raccontando la Roma di tutti i tempi.
La band non dimentica di ringraziare i fonici, i tecnici dell’Auditorium, Barley Arts che ha organizzato l’evento e tutte le persone che hanno permesso di realizzare questa serata.

Entra in scena un altro ospite d’eccezione, il grande chitarrista Roberto Angelini… e Ciao Core.
Durante il suo assolo, la gente tiene il ritmo, rapita.
Alessandro Marinelli scende tra il pubblico e infiamma le prime file.
Subito dopo ricordano anche che saranno a Piazza Sempione sabato 22 febbraio, per ricordare Valerio Verbano, lo studente antifascista ucciso quarant’anni fa.

«Roma è vestita da zingara e ogni giorno lei tira a campà, nessuno la porta all’altare né capisce che c’ha da strillà».

È dunque una città che “giace col suo cuore frantumato a le spalle del Campidoglio”.
Una Roma frantumata: un posacenere, un luogo dove gettare le carcasse consumate degli antichi splendori classici.
Eppure, nonostante tutto resta la nostra città. Questa è Roma.
Una città svilita, lacerata, e proprio per questo da amare con più forza, come fanno i Colle der Fomento sopra il medesimo palco.
Danno, Masito e DJ Baro lo riempiono in un istante: di emozioni, di parole, di energia.

Colle der Fomento
Colle der Fomento

Anche loro ripercorrono la storia dell’Urbe affrontando temi giganti: il tempo che stringe,  il freddo di una città – anche questo un pensiero tardo romantico, il concetto di gelo.
Che non è solo fisico, bensì interiore.
Ma dura un attimo e subito s’infiammano mentre gridano quello che è il loro modo di affrontare il tempo: “Mai fascisti, mai razzisti, mai omofobi… mai stronzi”.

Acustica, quella della Sala Santa Cecilia, che poco si presta ad accogliere un concerto hip hop.
Funziona perfettamente con Il Muro del Canto, perché il genere si cuce bene a quella sala così avvolgente.
Per i Colle der Fomento, al contrario, risulta anche troppo: è difficile capire le parole.
Ma questo non ferma in alcun modo il pubblico, che canta a squarciagola i testi del gruppo romano e viene sorpreso da un altro grande ospite, infuocato, senza freni: KaosOne. Una fenice.

«Miglia da percorrere e promesse da mantenere».

E loro una promessa la fanno: che avranno ancora molto, molto di cui cantare, per tanto tempo nel prossimo futuro.
E ne siamo felici.
Non manca nulla a questa notte da ricordare: due gruppi che amano profondamente la loro città, troppe volte ferita e umiliata; tanti ospiti che fanno brillare il concerto.
Sono stati disintegrati diversi stereotipi in un solo evento e i Colle der Fomento non mancano di ricordarlo: freestyle all’Auditorium? Il Beatbox di Aliendee? Memorabile.
Come l’ultimo special guest della serata, Roy Paci.

E poi, finalmente, tutti su quel palco: i Colle, il Muro e tutti gli ospiti.

Sembra la naturale conseguenza di una serata tra amici.
Riunirsi insieme, ognuno con la sua peculiarità, ognuno con le sue forze e debolezze.
È una Roma compressa in pochi metri rialzati.
E tutta la sua storia la ritrovi nelle rime del Muro, nelle strofe del Colle.
Come scriveva George Eliot, “Roma [è] la città della Storia visibile”.
E di tutte le storie che ci hanno narrato questi artisti: è la madre che ti accarezza, la zingara, la città delle apparenze, la puttana, la città fredda e gelida, la Regina Nera, la Roma dei nani e dei giganti.
La città che più di tutti sa ospitare ogni forestiero con discrezione. Lo spettatore così si riesce a immerge nel romanzo di una città, che rimane protagonista indiscussa del concerto.

Roma è tutto…. ed è tutta qua.

Mi piace pensare che Roma, sia dalla finestra di Via del Corso o dal tavolino di un bar di periferia, possa sprigionare ancora poesia. E questa magica serata è stata l’ennesima prova di una città che da sempre è vanto e vergogna, eterna e miserabile, affollata e solitaria, rumorosa e silenziosa, espressione della condizione umana che fa riflettere l’uomo.
Ecco perché a Roma la Poesia, l’Amore, non potrà mai morire.

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