
Steve Wynn l’incantatore di serpenti
Steve Wynn ipnotizza con la sua musica
L’artista di Los Angeles ripercorre la prima fase dei Dream Syndicate, tra canzoni che hanno fatto la storia e memorie autobiografiche.
Roma, 9 Aprile 2025 | Ph. © Giulio Paravani
Steve Wynn appare sul palco da solo. No, non è solo, ha con sé una chitarra acustica e inizia a raccontare. Io mi spavento. È la conseguenza della serata di qualche mese fa, un lunedì di novembre, quando Sun Kil Moon, trascinò, fin quasi all’una di notte, quel che rimaneva di un pubblico sfiancato da tre ore e mezza di monologhi. La paura diventa quasi certezza quando mi accorgo che dei primi quindici minuti, le parole ne hanno occupati dieci
La serata è l’occasione per presentare l’edizione italiana di “I Wouldn’t Say It If It Wasn’t True–A Memoir of Life, Music and The Dream Syndicate”. Un libro in cui racconta la sua vita artistica indissolubilmente intrecciata con quella personale. L’infanzia, la scoperta della musica, la vita che cambia con i Rolling Stones e i Velvet Undeground. L’epopea Dream Syndicate; i primi lavori, il successo, i contrasti, lo scioglimento e la rinascita a distanza di quasi venticinque anni. Sullo sfondo, ma nemmeno troppo la scena del Paisley Underground, storie, personaggi, eccessi, umanità in tutte le sue declinazioni.
Ho paura, anzi la avevo. Perché mi sbaglio della grossa. Entrano Rodrigo D’Erasmo, al violino, ed Enrico Gabrielli al pianoforte, sax tenore e baritono, flauto traverso per una versione da brivido di ‘Sunday Morning’, dominata dai riverberi della chitarra e caratterizzata dal pizzicato del violino. Quando la storia entra nel capitolo Dream Syndicate il concerto prende il largo verso il mare aperto e quello che accade è puro incanto. ‘That’s What You Always Say’ è la prima canzone della band californiana ad essere eseguita.

L’Italia è la Nazione in cui Steve Wynn i ha tenuto il maggior numero di concerti, sia da solista che con i Dream Syndicate. Il rapporto di affetto che lo lega al nostro paese è confermato dalla presenza del pubblico in sala teatro del Monk e dal trasporto con il quale segue la performance. E stavolta la scelta di allestire una platea con posti a sedere è azzeccatissima.
Perché è un concerto da gustare e godere, abbandonandosi al un piacere ipnotico di canzoni circolari, che girano sulla stessa semplice sequenza di accordi ripetuta all’infinito. Quanto abbiano pesato i Velvet Underground lo si intuisce con l’entrata di prepotenza del violino elettrico distorto, vaporoso e dissonante, insieme all’inusuale e lisergica bellezza del sax baritono.
Ma è anche un live da ascoltare nella beatitudine di una cascata di note floreali che escono dal flauto immerso nei riverberi. Accade durante ‘When You’re Smile’, terzo e ultimo estratto dall’album di debutto dei Dream Syndicate: “The Days of Wine and Roses”, anno 1982. Un lavoro uscito per la Slash Records, la stessa dei Misfits e di Lydia Lunch: due miti di Steve Wynn. Stando al suo racconto, il disco fu registrato in condizioni di ristrettezze economiche, che costrinsero la band a comprimere il lavoro in sole tre notti.
«Eravamo giovani, avevamo energia, avevamo le droghe. Nessun problema. Ma se registrammo il primo disco in tre notti, per il secondo ci vollero tre mesi. Lavorando dodici ore al giorno, sette giorni a settimana. Con il nostro produttore che ci ripeteva in continuazione “rifatelo!”»
‘Merrittville’ è estratta da “Medicine show”, seconda uscita della band. Un meraviglioso folk psichedelico con improvvisazione rumoristica del violino, l’onnipresenza di riverberi e l’affacciarsi di momenti malinconici con accordi in minore. La parentesi di ‘Make It Right’, recentissimo singolo contemporaneo al libro, vede l’intervento di Roberto Angelini con l’inseparabile lap steel guitar. ‘The Medicine Show’, brano che dà il titolo al disco è il momento più grintoso e cattivo della serata. Un giro blues con perfetta amalgama e bilanciamento tra registro alto del violino con quello grave del sax baritono, che chiude fraseggiando sugli armonici.
Non c’è molto da tergiversare. Steve Wynn scrive Melodie e strutture armoniche che nella più assoluta semplicità grondano visionaria e romantica bellezza. Come nel caso di ‘Boston’, pezzo di grande respiro, chiuso dal sax di Enrico Gabrielli che si perde nelle ripetizioni dei delay e dalla bellissima outro con i cori di Rodrigo D’Erasmo.
«Le cose andarono bene per sette anni; il tempo giusto per un gruppo. Anche i Beatles sono durati sette anni. Le band sono come i cani, ogni anno ne vale sette e sette ne valgono cinquanta.”»
Poi lo scioglimento. ‘When the Curtain Falls’ chiude “Ghost Stories” (1988) l’ultimo capitolo della saga dei Dream Syndicate. Sul palco ora lascia spazio alla malinconia e alla riflessione di una storia che si chiude senza rimpianti. Voce profonda, il flauto che crea armonizzazioni con il violino. Echi di un passato che si allontana, aperture su un futuro ancora da decifrare ma…
…ma che lascia spazio a qualsiasi possibilità. Compresa quella di riformarsi nel 2012 per tenere una serie di concerti dal vivo e riprendere cinque anni dopo l’attività in studio. Per ora si ferma qui. ci sarà tempo e, chissà, forse un altro libro per raccontare la seconda parte della storia. Per stasera, la chiusura è lasciata alle sue parole, pronunciate in un buon italiano e al pubblico che gli tributa due standing ovation. La prima al termine di ‘The Days of Wine and Roses’, la seconda in chiusura di ‘Amphetamine’. Un treno psichedelico che viaggia a gran velocità su un unico accordo, con il ritorno della lap steel di Bob Angelini e un finale dove si affacciano soluzioni rock and roll.
Non ho altro da dire. Anzi sì: mi raccomando, torna presto in Italia Mister Wynn