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Sun Kil Moon

Sun Kil Moon: un pugile mancato e le sue infinite storie

Al Monk va in scena il diario quotidiano di Mark Kozelek

Cronaca di una serata di belle canzoni e (troppe) parole

Roma, 18 Novembre 2024

Ventidue anni fa Mark Kozelek scelse di celebrare il suo sconfinato amore per la boxe dando il nome di un peso mosca coreano alla prosecuzione del progetto Red House Painters. Motivò il cambiamento con la necessità di ravvivare l’attenzione di critica e pubblico sulla band. Dopo alcuni anni, Sun Kil Moon divenne l’identificativo del suo progetto solista.

Del fatto che sia davvero tale, è testimone l’allestimento di stasera sul palco del Monk, quarta data italiana del suo tour europeo. Null’altro che uno sgabello, una chitarra classica, un leggio con i testi delle canzoni. A pochi minuti dall’inizio della serata, alcuni addetti eliminano, su sua richiesta, le transenne di separazione tra pubblico e palco. Niente fotografi, Kozelek non li vuole. Intanto, un’occhiata alla scaletta e alla durata dei concerti di Parma e Milano e pavento che non sarà una serata come le altre. Sono arrivato preparato a qualcosa di non convenzionale, ma scoprirò presto di aver sottovalutato l’impegno di stasera.

Assunto di base: non esiste arte senza male di vivere. Principale carburante della creatività sono i conflitti irrisolti. Otto Rank, allievo di Sigmund Freud, definisce i nevrotici non come persone “inadatte”, prendendo le distanze dal suo maestro, ma come artisti mancati. Nel suo “L’Artista”, pubblicato nel 1907, colloca tale figura a metà strada tra il sognatore e il nevrotico. Il primo esprimerebbe e darebbe forma ai suoi conflitti nella fase onirica, il secondo attraverso il sintomo. L’artista, invece, lo farebbe attraverso le sue creazioni.

Nella mia vita fatta di concerti, raramente ho incontrato artisti per i quali la teorizzazione dello scienziato viennese si sia rivelata più centrata. Sun Kil Moon è il disagio. Su di lui si favoleggiano aneddoti di ogni tipo. Concerti annullati a poche ore dal salire sul palco, a camere di hotel trattate con la grazia e la leggiadria proprie di un certo Keith Moon (sarà l’assonanza?), a rapporti con le donne non proprio rispettosi.

Sun Kil Moon
Sun Kil Moon/Mark Kozelek

Più che un concerto, quello di stasera è il racconto a ruota libera e autoreferenziato di un diario del quotidiano. Un monologo senza freni e controllo che in diversi momenti sembra voler quasi strizzare un occhio alla stand up comedy. Come quasi tutti i disturbati riusciti a sopravvivere a loro stessi, Mark Kozelek possiede un eccellente senso dell’umorismo, e spesso riesce con facilità ad evocare risate di gusto.

Ma quando alla mezzanotte tra un lunedì e un martedì di novembre, dopo due ore e tre quarti di concerto, si piazza davanti al leggio per regalare ai presenti uno spoken word sull’Italia, della durata di venti minuti, mi chiedo se si possa parlare di rispetto verso il pubblico, o quantomeno di attenzione ai segnali da questo inviati. Perché per molti è l’occasione per uscire dalla sala e ristorarsi con una birra nel bar adiacente. Per altri la scusa per alzare bandiera bianca e guadagnare l’agognato riposo domestico.

Sun Kil Moon si prende la scena raccontando lunghe storie tra una canzone e l’altra, interrompendone addirittura le introduzioni. Durante la prima ora di concerto i monologhi soverchiano la musica, dilatandosi oltremisura e arrivando anche a sfiorare i dieci minuti tra un brano e il successivo. Alcuni mormorano, qualcun altro va oltre, chiedendo a gran voce “Where is the music?”. I fan pendono dalle sue labbra. Io vedo davanti a me una persona vittima di sé stesso e dei propri demoni, e avverto montare una leggera irritazione.

Parole a volte strascicate, pronunciate lontano dal microfono. Frammenti di frasi appena udibili intervallati da versi e da urla. Il confine tra performance provocatoria, anarchica espressione del genio e sciatteria, è labile e più volte attraversato. Forse solo chi ha assistito a un concerto del Morgan dell’ultimo decennio potrà più facilmente immaginare la realtà dello show di Kozelek. Una sintesi tra un predicatore televisivo, un amico dal tasso alcolico sopra i limiti del consentito che ti chiama alle tre del mattino e Ricky Gervais.

Sun Kil Moon/Mark Kozelek

Poi ci sono le canzoni. L’opening di ‘Christmas in New Orleans’, cantata su una base di piano elettrico, avrebbe tutta la dignità di essere una canzone conclusiva di un film di Natale. La mettiamo da parte. Ma quelle che seguono mi ricordano il motivo per cui sono qui stasera e per cui resisterò fin ben oltre la mezzanotte. Sun Kil Moon sfodera una buona tecnica di chitarra classica. Un suono pieno e pulito e succoso che puoi sentirne il sapore in bocca. La struttura musicale dei pezzi non differisce da un brano all’altro. Sequenze di accordi arpeggiati e abbelliti da trilli e acciaccature, che si ripetono all’infinito con variazioni minimali. Ma si reggono alla grande.  La musica è il pretesto per dare la stura a storie che partono dal quotidiano per scavare nei recessi profondi dell’anima.

Le canzoni sono affreschi, quadri impressionisti, acquerelli che catturano momenti di vite slabbrate, stinte. Istantanee che prendono fuoco e poi si dissolvono. Esistenze bruciate dal dolore che si consumano, ma non muoiono mai. Sun Kil Moon racconta le sue fragilità, dolori, solitudini e lacerazioni. Ma resta in piedi, come il pugile che continua a ricevere colpi senza mai andare al tappeto. E tu, che aspetti un ultimo respiro che non arriva e resti aggrappato alle melodie e alla sua voce, intensa, piena, pulita. Brani che hanno una bellezza e una nobiltà titanica, che si espandono grazie ai riverberi di cui è ricco il suono della sua chitarra e per i quali rendo pieno merito al suo fonico. Arpeggi con soluzioni armoniche classiche rinascimentali/barocche in ‘Young Love’, o zeppeliniani in stile ‘Going to California’ in ‘Harper Song’.

Sun Kil Moon
Sun Kil Moon/Mark Kozelek

Kozelek prende le mosse da episodi apparentemente ordinari e banali della sua quotidianità, scavarti dentro e sbatterti davanti ciò che di te stesso fai finta di non vedere. Come accade, ad esempio, in ‘I Watched the Film The Song Remains the Same’. Quando i Led Zeppelin rientrano dalla porta principale, ma l’esperienza di vedere la band dal vivo diventa spunto per dar forma alla sua malinconia, timidezza, fragilità e ipersensibilità per la sofferenza altrui.

Testi carichi di riferimenti autobiografici, sovrappongono la sua esperienza alla tua e finisci con lo specchiare te stesso nel suo profluvio di parole e nelle sue emozioni senza sconti. In ‘Richard Ramirez Died Today of Natural Causes’ sfrutta la morte di un criminale per liberarsi del peso della morte e trasformarlo in canzone. In ‘Caroline’ attraverso la sua storia di artista in tour, nuotando nelle più belle piscine degli hotel più di lusso, fa i conti con il sentimento di assenza e mancanza dell’unica persona che conta. Mentre ‘Clarissa’, canzone che dopo tre ore e mezza chiude la serata,  è occasione di riscoprire radici e appartenenza alla famiglia a partire da una tragedia familiare causata da una fatalità,

Protagonista della sua musica e della serata in ogni caso è la solitudine di un’anima ipersensibile, conflittuale, disturbata, complessa, difficile, egoriferita e talvolta irritante, impegnata in un eterno incontro di boxe con la vita. Mark Kozelek/Sun Kil Moon è questo, prendere o lasciare. Ma, come qualcuno gli urla dalla platea, lo ami per questo. Oppure lo odi.
Come accade con gli artisti, quelli veri.

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