
Hugh Cornwell: un punk e la sua nostalgia
Un concerto dolceamaro per l’ex leader dei The Stranglers
Hugh Cornwell al Monk: le solite splendide canzoni e una grande ombra
Roma, 15 Aprile 2025 | Ph. © Giulio Paravani
Improvvisamente accade. Quando è passata un’ora e dieci minuti dall’inizio del concerto di Hugh Cornwell e l’ex leader dei The Stranglers saluta il pubblico al termine della prima parte del concerto. Sta uscendo di scena, al lato del palco, mentre il grosso del pubblico acclama i musicisti. Accanto a me un uomo, sui sessant’anni, capelli bianchi, chiodo nero dipinto a mano con il logo della band inglese; il figlio accanto. Domani devo pagare il condominio e potrei trovarmelo allo sportello dell’ufficio postale. Ma adesso si lancia sul palco e corre ad abbracciare la stella polare della sua giovinezza.
Ma l’astro in questione non gradisce. La sua espressione del viso racchiude il comprensibile timore di un signore di quasi settantasei anni e l’istinto di usare la Fender Telecaster alla vecchia maniera dei punk. Ma ci pensa la security ad allontanarlo con maniere urbane, ma decise, e riconsegnarlo al figlio, rassegnato più che sorpreso. Ne riparleremo più avanti
Premessa: Hugh Cornwell è artista vero, multiforme ed eclettico. la sua produzione spazia dalla letteratura, saggistica e narrativa, al cinema e recentemente anche ai podcast. Ha una gran bel songwriting e questo lo si sapeva. Canzoni originali nella struttura armonica, nelle melodie e nelle soluzioni degli arrangiamenti. Suona in trio e i musicisti che lo accompagnano, Pat Hughes al basso elettrico e Windsor McGilvray alla batteria, sono formidabili e tengono in piedi un concerto senza alcun tipo di calo per un’ora e mezza.
L’aspettavamo, anzi la speravamo tutti. ‘Golden Brown’ arriva quasi subito, ma la riconoscono solo quando attacca il cantato e non c’è il boato di saluto che mi aspettavo. È una canzone non semplice da eseguire in trio senza la presenza delle tastiere. ma anche così resta una delle dichiarazioni d’amore più poetiche e romantiche che siano state cantate
«Golden Brown funziona su due livelli, l’eroina e una ragazza […] entrambe mi hanno regalato momenti piacevoli» [Hugh Cornwell]
Prodotta da Tony Visconti, lo stesso della “Trilogia Berlinese” di Bowie (non serviva lo dicessi, vero?), per anni ‘Golden Brown’ è stato il singolo più venduto della EMI. Per me una delle più belle canzoni di sempre. L’andamento in ¾ con l’inserimento nella parte strumentale di una battuta in quattro fa ancora litigare quelli bravi riguardo l’indicazione più corretta del tempo del pezzo. Inserirla in scaletta testimonia il coraggio di un artista che a distanza di decenni continua a sbattersi per club a suonare ogni sera.
Non potrebbe essere diversamente. Concerti come quello di stasera hanno senso soltanto in club medio piccoli, con il pubblico a meno di tre metri di distanza. Le sonorità più cupe e oscure di ‘Dead Loss Angeles’, altro classico dei The Stranglers, si alternano a momenti più leggeri e aperti, come in ‘Moments Of Madness’, title track del suo ultimo lavoro, con un groove a metà tra lo ska rallentato e un reggae velocizzato.
Nei passaggi tra strofa e ritornello di ‘when I Was A Young Man’ si riaffacciano i The Who. Lo strumming di Hugh Cornwell sulla chitarra fa risuonare gli accordi presi con posizioni che lasciano alcune corde a vuoto. ‘Tank’ e ‘Nuclear Device (The Wizard of Aus)’ mettono nuovamente The Stranglers in primo piano e le buone maniere sullo sfondo. Punk allo stato puro il primo pezzo, mentre il secondo, suonato a 150 bpm anziché 125 e con dei muri di chitarroni, potrebbe essere benissimo un tributo ai Ramones.
Arrancante, con la lingua di fuori a sputare per terra è ‘Mr. Leather’. Tributo a Lou Reed, a New York e ai Velvet Underground. Canzone che narra di un mancato incontro tra Cornwell e l’autore di ‘Venus In Furs’, in una cena annullata a causa di un’influenza che aveva colpito entrambi.
Dopo l’assalto del fan, il bis si apre con una “chicca”. ‘Big Bug’ è ripescata da “Nosferatu”, un lavoro del 1979 scritto da Hugh Cornwell con Robert Williams, batterista di Captain Beefheart. Pezzo dissonante, ossessivo, allucinato, sperimentale. Ancora una volta sugli allori le capacità tecniche dei suoi due musicisti, in una canzone che parla del treno blindato di Lev Trotsky durante la Rivoluzione d’ottobre.
La dolcezza e la melodia aggraziata di ‘Strange Little Girl’ è il prologo del commiato. Da menzionare la surreale apparizione sul palco di un suonatore di maracas con una maschera da gallo nero sul volto. Sulla potenza martellante di ‘Goodbye Toulouse’ conferma lo strapotere del basso elettrico, quale strumento d’elezione del punk e del postpunk.
Torno a casa e come sempre accade, lascio una notte di tempo all’inconscio metabolizzare l’esperienza del concerto. E al risveglio l’euforia di fine concerto ha acquistato contorni un po’ sbiaditi.
Hugh Cornwell ci seduce, ma, al contempo, ci invita a seguirlo nelle sabbie mobili della nostalgia. L’amara consapevolezza che far finta, per una sera, che tutto sia rimasto uguale a tre decenni fa è proprio ciò che permette alla scure del tempo di scalfire le canzoni che ho ascoltato stasera. E diventa evidente la vecchiaia: non della bellezza dei brani, quella è senza tempo: quella di pubblico e artista. E il sessantenne impazzito buttato giù dal palco dalla security, davanti allo sguardo compassionevole del figlio, ne è perfetta ed eloquente didascalia.