Tash Sultana, in tour con papà

Roma, Auditorium Parco della Musica, ventisei luglio 2023.
Accanto a me passa un signore con barba lunga e con un pass all access areas appeso alla cintura.
Sono passate ventidue ore e trecentotrentatré giorni dalla prima volta che vidi un live di Tash Sultana e apprendo la notizia che mi impone di aprire così il report.

James Hillman è uno psicoanalista junghiano, scrittore e filosofo.
Secondo questo autore, la nostra anima prima della nascita riceve un compagno di vita, un “daimon”.
La sua presenza si manifesta sottoforma di “chiamata” che ci ricordi ciò che la nostra anima ha scelto di realizzare.
Il daimon è il portatore del nostro destino ed è visibile fin dalla prima infanzia, attraverso le inclinazioni che le bambine o i bambini manifestano.
In alcune persone questa chiamata è molto più forte ed evidente che in altre: compito degli adulti è quello di riconoscere l’unicità di questa chiamata, proteggerla e assecondare questa naturale vocazione.
Nella sua opera “Il Codice dell’Anima”, lo studioso analizza le biografie di grandi artisti, scienziati e grandi della storia, nella cui vita sarebbe più evidente il manifestarsi di questa chiamata.
Lessi questo lavoro alla fine del secolo scorso, durante un viaggio sulle scogliere australiane del New South Wales, Australia.

Mi tornò in mente la concezione di Hillman lo scorso anno, guardando Tash Sultana sul palco del Todays Festival.
Era una bambina australiana di tre anni, quando ricevette in regalo dal nonno una chitarra.
La chiamata del suo daimon non tardò a manifestarsi: Tash mostra immediatamente un talento eccezionale per la musica e una passione di pari livello. Impara a suonare la chitarra.
In pochi anni diventa una polistrumentista a tutto tondo: tastiere, sassofono, tromba, flauto, batteria, nessuno strumento ha segreti per lei.
Cresce e forma la sua prima band ma, come spesso succede, quando il daimon urla a volume troppo alto, ne paga le conseguenze.
Attraversa un periodo doloroso e difficile, dal quale rischia di non uscire.
Fortunatamente, dopo diversi mesi di lotta, vince e ne esce con nuove consapevolezze e rinnovata forza.
Inizia a scavare dentro sé stessa, a scrivere i primi testi.
Ha difficoltà nel trovare un lavoro e inizia a esibirsi per le strade della sua città natale fin quando decide di pubblicare il video di una sua canzone per chitarra e loop station.
Il brano si chiama ‘Jungle‘ e a oggi vanta 164 milioni di streaming su youtube.

Il resto è storia recente: due Lp, tour mondiali, il papà che abbandona il lavoro per diventare il suo roadie, un ricco (immagino) contratto di endorsment con la Fender – compreso un modello di Stratocaster signature Tash Sultana, con humbucker al ponte, leva vibrato dorata – una fan base che in lei si riconosce e si identifica in continui riconoscimenti al suo talento.  

Amistat

Fermi tutti, però.
Prima di lei, doverosa citazione per gli Amistat, fratelli gemelli eterozigoti.
Josef e Jan Prasil, padre ceco, mamma australiana, nati in Germania, cresciuti in Italia e trasferitisi in Australia.
Mumford & Sons insegnano: il folk che oggi va per la maggiore.
Chitarra acustica, pedale di cassa, elettronica e buone, anzi ottiime, armonizzazioni vocali.
Partono con delicatezza e timidezza, hanno pezzi interessanti, piacciono al pubblico, prendono coraggio e finiscono in crescendo.
Chiedono ai presenti di cantare la coda dell’ultimo pezzo, ottengono un risultato incoraggiante.
Sono segnali anche questi: in bocca al lupo.

Cambio palco, cambio tecnici.
Come i fan, è giovanissima anche la crew che prende posto dietro alla regia luci e audio.
Sono bravi e rodati, lavorano con il sorriso e rilassati.
Visti da fuori appaiono come un gruppo di amici uniti da un legame con l’artista che il normale rapporto professionale.
Vengono da Monza, dove il giorno prima la polistrumentista di Melbourne si è esibita prima di Bruce Springsteen.  
Roma è l’ultima data del tour e l’atmosfera è quella di festa dell’ultimo giorno di scuola.
Forse per questo l’inusuale presenza di birre, laddove normalmente la concentrazione e la delicatezza del lavoro impone di non andar oltre l’acqua naturale.
Ma bando alle cazzate, ventuno e trenta, inizia il live.

Giganteggia sullo schermo a fondo palco l’immagine di un suo simbolo storico, un fungo con espressione sorridente, occhiali da sole e una sigaretta – facciamo che sia una sigaretta – in bocca.
La ragazza non difetta di autoironia e per chi non conosce la storia ci sono sempre i motori di ricerca.
La ricordavo vestita color verde leprechaun, stasera invece è nero il colore dominante.
Maglietta griffata Fender, catenella d’acciaio alla cintura dei pantaloni che termina nella tasca anteriore destra, cappellino da baseball.
Tre pedane sul palco: due laterali e una centrale circondata dal ben di Dio di strumenti.
Tastiere e synth appoggiati su una coperta in stile aborigeno, octapad, drum machine, epedalboard di ogni tipo.
Chitarre (5) e bassi (2) sono protetti ai lati del palco e affidate alle sapienti mani della sua fidata roadie.
Le loop station sono tre, una per ogni pedana, connesse tra loro.
Immancabile l’arcobaleno LGBTQ di tubi luminosi.
Sullo schermo, la grafica si alterna o mescola con le immagini live diuna camera posta accanto al mixer e di altre sistemate intorno alla pedana centrale. Colpo d’occhio d’effetto le pedalboard e le loop station, che viste dall’alto ricordano la tavolozza di un impressionista.

Tash Sultana

Tre sere fa sono bastati 5 minuti ai dEUS per far fiondare il pubblico sotto al palco, a lei bastano dieci secondi.
Non dice nulla, basta un gesto per far saltare gli spettatori e far innamorare il sottoscritto.
Qualche mese fa la raccontai come una bambina impazzita e felice di avere a sua totale disposizione i suoi giochi preferiti, e potrei scrivere esattamente la stessa cosa.
Salta, corre impazzita da una parte all’altra del palco, per la gioia del responsabile delle riprese video vicino a me, che non fa una piega e svolge un gran lavoro.
Apre con ‘Mystik‘ e con un primo piano delle sue mani sullo schermo.
Un’orgia di chitarre, groove reggae, loop, drum machine (forse con uno dei loop non proprio preciso) voce ed effetti di reverse – che userà con più moderazione rispetto al live torinese di fine agosto 2022 – su quella che sembra la coda del pezzo.
Invece non lo è; prende un basso elettrico, ancora loop, centrifughe sonore e vortici di luce e colori celeste e fucsia.
Ancora le sue dita, drum and bass, cassa dritta in quattro e coda strumentale con un solo di sax mentre salta sulla pedana di sinistra per noi che guardiamo il palco. Poi stop ai loop.
Nella Cavea piomba il silenzio, resta solo il sassofono.
Poi, improvvisa, la pressione di un pedale ed è uno Stromboli di suono.
Benvenuti da Tash Sultana, signore e signori.

Cigarettes‘ e ‘Pretty Lady‘ ci svelano una sfumatura della sua anima artistica più morbida e raffinata.
C’è spazio per apprezzare le sue notevoli doti canore e la ricercatezza degli arrangiamenti.
È comunque ancora la Tash Sultana buskers: la immagino sulla Parramatta o lungo Bondi Beach a Sidney o a Northbridge, a Perth, esprimere il suo talento in modo anarchico e sfrenato, senza limiti che non siano quelli che essa stessa decide di porsi.
Ma se un funambolo che fa cinquemila palleggi non è detto sia un fortecalciatore, una maga delle loop station e degli effetti specialipotrebbe poi trovarsi non a proprio agio in un contesto diverso dalla strada o dalla sua camera.

E allora la tesi di laurea diventa il sapersi muovere all’interno di vincoli che nascono dall’interazione con altri musicisti.
È qui che la ragazza mostra la sua caratura artistica, nel disciplinarsi, contenersi e mettere la sua esuberanza al servizio della creazione collettiva.
Se nelle interviste continua a considerarsi una one woman band, è grande il lavoro svolto finora per uscire da questa dimensione, che alla lunga potrebbe risultare un limite più di quanto non sia la presenza di altri soggetti con cui condividere il palco.
Rispetto a Torino la vedo assai più rodata nella dialettica con la band, che entra sul palco per accompagnarla da questo momento in poi.
La vediamo in ‘Crop Circles‘ imbracciare la chitarra acustica e dialogare con piano elettrico, batteria e basso, in un brano elegantemente pop, salvo poi farsi passare la Strato celeste e lanciarsi in mezzo al pubblico in un diluvio di wah wah e distorsione.
Un mood fusion e black/hip hop è evidente in ‘Greed‘, con classici suoni anni Ottanta Stratocaster passati nella più classica accoppiata chorus + delay, la strofa rappata che sfocia nel ritornello in cui dà nuovamente prova della sua estensione vocale.
A chiudere, un solo finale di flauto.
C’è spazio per un mio film mentale: uno strumento etnico, una tribù aborigena, il bush australiano, Wim Wenders, Bruce Chatwin, il viaggio di Robyn Davidson, a piedi da Alice Springs all’Oceano Indiano, “Le Vie dei Canti”.
Immagino troppo mi sa.

Esco dalla trance e torno nel qui e ora della Cavea con una nuda e cruda jam reggae, altra prova della sua ecletticità.
Venature progressive e psichedeliche, tappeti di synth a perdita d’occhio, chitarre dilatatissime e liquide e a chiudere un solo di tromba.
Arriva ‘New York‘, e la ragazza iperattiva sul palco che gioca con i loop vocali tra luci stroboscopiche e groove accattivanti, poi fulmina con un vero attacco rock blues da strato e chiude cantando a cappella.
I fiati di ‘Willow Tree‘ ci riportano nell’universo soul e black.
Poi è il jazz a entrare dalla porta principale, con una seconda jam dal chiaro taglio fusion: voce filtrata da effetto di pitch e climax energetico che si avvicina mentre si impadronisce della pedana di sinistra del palco imbracciando il sax.
Sullo sfondo scorrono le immagini delle piramidi della valle di Giza sormontate da un occhio: una manna per i sostenitori del complotto giudo-massonico nel rock.

È l’ultima data del tour ed è tempo di saluti e ringraziamenti.
Alla band, al pubblico – «Italians fucking passionate»  alla crew che risponde con un brindisi dal mixer.
E al signore con la barba incrociato all’entrata, che sale sul palco per prendersi l’ovazione più sentita: il papà.
Poi mette di nuovo da parte il virtuosismo e riprende la chitarra acustica.
La melodia della sua voce si fonde con l’animazione della danza disneyana di meduse rosa.
Passa al mandolino e introduce il crescendo strumentale finale, con protagonisti ancora i suoni carichi di fuzz e delay delle Fender.
È ‘Coma‘, un gran pezzo (il rischio che diventi il mio preferito è alto).

Via la band, torna da sola nella sua camera da letto a giocare con i suoi amici preferiti.
Loop, drum machine, pad, synth, chitarre, loop, tutti in una volta per caricare il pubblico ma ottenere anche un silenzio da cattedrale, nel momento di massima tensione.
Notion‘ è una preghiera e sul primo piano del suo voltoprendono forma i mostri contro i quali ha lottato.
Il daimon di Hillman, il fuoco, la sua chiamata alla vita.
Chiude come sempre, l’attacco di ‘Jungle‘ fa sorridere i cuori.
L’immagine del Serpente Arcobaleno, che nacque insieme al sole ed emergendo dal sottosuolo rese fertile la terra modellata dai Grandi Spiriti, rivela il legame profondo con la sua terra.
Alla fine dello show, la trovi seduta sul palco a sorridere, salutare i fan e firmare dischi.
Scegliersi un corpo e un contesto ideale per nascere, scendere nel mondo, rispondere al daimon, assaggiare il sapore della terra, ritornare a volare alto: la storia dell’anima secondo James Hillman – la storia di Tash Sultana.

Roma, 26/07/2023

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© Giulio Paravani

1 Comments

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  1. […] – dove stanno per esibirsi gli Amistat, opening di Tash Sultana nel suo concerto in Cavea a Roma (per leggere il report clicca qui, ndr). Josef e Jan Prasil, fratelli tedeschi, cresciuti in Italia e trasferitisi in Australa: indie […]

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