Skunk Anansie, fare politica a colpi di rock’n’roll

Bassa padana, un punto imprecisato tanto ogni cosa è uguale a tutto il resto.
Un giorno di giugno, un anno qualsiasi dopo i cellulari, prima degli smartphone e delle app di navigazione.
«Dove sei?»
«Sono appena uscito dallo svincolo di Fidenza. Vedo il cimitero»
Risata, «Non è il cimitero. È l’outlet»

In queste diciotto parole la migliore sintesi del mio rapporto con le megastrutture commerciali.
Leggere Skunk Anansie accanto a Valmontone mi provoca la stessa reazione simpaticomimetica suscitata dallo stridio di un gessetto su una lavagna.
Nei suoi vent’anni di vita ho messo piede lì per tre volte, l’ultima delle quali non certo per fare acquisti.
Se non si possiede un mezzo di trasporto, arrivarci non è la cosa più semplice del mondo e immagino una lunga attesa in coda.
E invece resto stupito: rapidamente trovo posto in un grande spazio gratuito, immediatamente dietro il palco e il backstage.
Non è un effetto speciale, ma è cosa gradita e non scontata.
Scendo dalla macchina e quando mi arriva alla membrana timpanica la voce del dj incaricato di intrattenere il pubblico giunto, il gesso sulla lavagna diventa la cipolla nella carbonara.
O più probabilmente dovrei solo darmi una calmata.

Costeggio i bandoni di recinzione della zona del live e penso che sarò dentro in cinque minuti: ne passeranno cinquanta.
Chiariamoci, l’organizzazione è perfetta.
Il ritiro pass avviene in meno di un minuto ma, per entrare al concerto nell’area concerti, bisogna attraversare l’intera zona dei negozi e superare tre o quattro prefiltraggi, con percorsi delimitati e organizzati ad hoc onde evitare assembramenti e calca.
Le operazioni di imbarco su un volo intercontinentale per Seattle richiederebbero meno tempo, ma quando vengo a sapere del costo irrisorio del biglietto, comprendo che la gran parte delle spese sia stata sostenuta dalle strutture commerciali e termina ogni fastidio.
Se questo consente di godersi un grande concerto pagando solo quindici euro, rendendolo dunque accessibile a tutti, ben venga.
Mercificazione della musica è altro, ad esempio trasformarla in passatempo di lusso per le élite, chiedendone duecento (o più) per band all’ultima moda o per vecchie glorie che si trascinano faticosamente sulla scena.

Unica scomodità è l’assenza di punti di ristoro nell’area del live che costringono ad uscire, ripercorrere il percorso fatto per entrare, per acquistare bevande e cibo nei ristoranti dell’Outlet.
Infatti, la quasi totalità del pubblico sceglie di seguire il consiglio della security e far abbondante rifornimento prima.
Motivo per cui mi perdo quasi completamente l’opening di R.Y.F., acronimo di Restless Yellow Flowers, al secolo Francesca Morello, già con gli Skunk Anansie nelle tappe italiane del tour 2022.
Grande impatto, post-punk elettrico, energia, provocatrice, ma ascoltata troppo poco per poter dire di più. Considerazione generale e personale, non legata alla sua performance: le loop station sui palchi cominciano a essere troppe e stanno pian piano diventando come i delay per i chitarristi, uniformando performance ed artisti.

R.y.f.

Il pubblico è variegato ed eterogeneo ed è accorso numeroso, sicuramente più di quanto mi aspettassi, nonostante le difficoltà logistiche.
Onore al merito dell’organizzazione aver previsto un servizio navette con ritorno alla stazione Termini prenotabile via Whatsapp.
C’è lo zoccolo duro dei fan storici della band, accanto ai più giovani.
Fan ma non solo, diversi sono gli spettatori attirati da un nome di richiamo abbinato a un biglietto dal prezzo più che accessibile.
Mentre penso e temo che una buona parte di questi passerà parte del concerto parlando dei cazzi loro, una salva di strobo e uno squillo di trombe annuncia l’entrata della band.
Poco da dire: spaccano di brutto.
La chitarra di Ace piena, corposa e aggressiva come sanno esser solo le valvole dei Marshall, che troneggiano in numero di sei dietro di lui.
Il rullante di Mark Richardson è una frustata, il basso di Cass è lo scheletro dei pezzi.
Sono i suoni familiari per me, ancoraggi sonori che attivano il mio sistema rappresentazionale auditivo e diventano l’elisir di eterna giovinezza.
Suoni che la band inglese ha saputo mantenere freschi, attuali e di sicura presa su un pubblico non solo di addetti ai lavori o di fan.
Chi si aspettava un’operazione nostalgia resta deluso: la band ha ancora da dire, ricordare e (se il caso) insegnare cosa sia il rock.
Un muro di decibel e di autenticità, «it’s a fuckin’ rock and roll. Nothing else».
Accanto ai tre, una sorpresa è Erika Footman, ben più di una semplice corista: una vera polistrumentista che si alterna alle tastiere e alle percussioni.
Presente e strabordante di personalità, in diversi brani si prende la scena, carica il pubblico e affianca sul palco la signora Deborah Dyer, più conosciuta come Skin.

Erika Footman

Appunto, Skin: in tre secondi si prende scena e pubblico.
Accoglie, seduce, sorride.
Postura e gestualità da leader carismatica e dominatrice, ipnotizza fan e semplici spettatori occasionali che resteranno a bocca aperta (e fortunatamente silenziosa) per le quasi due ore di durata del concerto.
Padrona del palco, suo luogo naturale d’elezione, come tale concede senza gelosia alcuna la scena alla Footman. Il perfetto complemento alla musica, la punta di diamante che finalizza tutto il lavoro della band.

I venti brani della scaletta ripercorrono la loro carriera musicale, condensandola in due ore di concerto, o poco meno.
Aprono con ‘This Means War‘, singolo datato 2020.
I testi e i messaggi non hanno perso la rabbia delle origini, a difesa delle minoranze, o più correttamente a ricordarne la legittimità dei loro diritti.

«Vengo dalla comunità nera di brixton. Messi da parte e dimenticati durante gli anni della Thatcher. Nel nostro quartiere i fondi pubblici erano tagliati. Se cresci in una zona dimenticata dal tuo governo ti chiedi: cosa posso fare?» 

Così diceva Skin in un’intervista del 1995.
I tempi non sono troppo mutati e arrivano ‘Intellectualize My Blackness‘ e ‘It’s Fucking Politicals‘, direttamente dai primi due album.
Invita il pubblico ad avvicinarsi ancora più sotto al palco e parte la cavalcata, tiratissima e sfrenata, di ‘I Can Dream‘.
Il pubblico si scalda.
Intorno a me un reduce degli anni ruggenti inveisce contro gli smartphone che si alzano a centinaia e si diverte a spaventare la sua compagna, annunciando la partenza di un pogo che non avverrà mai.
Davanti a me, invece, un altro va in crisi su un break in sette ottavi che lo manda fuori tempo.
Ma la vera sorpresa di tutta la serata è il battimani corretto sul due e sul quattro.
Incredibile ma vero.

Skunk Anansie

C’è spazio per i classici e per brani più recenti, in una performance che non ha un attimo di respiro.
Twisted‘ fa saltare e scalmanare anche i più timidi, ‘Weak‘ mi riporta ventenne, o poco più, dentro una sala prove in zona Colosseo e alla loro prima data romana.
Dopo un’ora la banda sembra alzare il pedale dal gas, ma dura giusto il tempo di un paio di strofe di ‘Love Someone Else‘.
Skin parla in italiano con il pubblico e usa l’inglese, chiedendo scusa, quando il discorso da fare è più complesso e tocca temi importanti come quello della diversità sessuale e religiosa, a introduzione di ‘God Loves Only You‘. Verso la fine del concerto c’è lavoro supplementare per Erika Footman, soprattutto in ‘Charlie Big Potato‘ a chiusura della prima parte, mentre durante ‘Hedonism‘ ci pensa il pubblico; ed è uno splendido unisono con lei.

Il bis è aperto dall’inedita ‘Piggy‘, ed è seguito dai brani iconici ‘Secretly‘, ‘Follow Me Down‘ e ‘Little Big Swastikka‘, queste ultime due invertite rispetto a quanto riportato in setlist, cosa che manda in cappella per alcuni secondi gli addetti alle luci dell’area concerti.
La fine è fiammeggiante, esplosiva.
Il post concerto quasi di più, politici, orgogliosi di esserlo.
Il pubblico defluisce sulle note di ‘Bella Ciao‘: il messaggio è chiaro e fuga ogni dubbio, si può ancora fare politica a colpi di Marshall e rock.
Serviva ribadirlo? Oggi sì.
Viva gli Skunk Anansie.

 

Valmontone (RM), 06/07/2023

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