
Sarah Jane Morris: “sorellanza”, cuore e grande musica
Il Sisterhood Tour fa tappa a Roma
Da Bessie Smith a Sinhead O’ Connor l’omaggio di Sarah Jane Morris alle voci femminili che hanno fatto la storia
Roma, 26 Marzo 2025 | Ph. © Stefano Panaro
Auditorium Parco della Musica di Roma, è trascorsa un’ora e venti dall’inizio del concerto di Sarah Jane Morris in sala Petrassi. L’artista ha appena evocato angeli, poeti e poetesse rock: una in particolare. Un riff cattivo della chitarra elettrica di Tony Remy apre ‘Crazy Angel’, ispirata alla figura di Patty Smith. Uno dei momenti più d’impatto della serata, distorsione valvolare, voce potente. La classica “bella botta”. Sorprendente l’apertura gospel del coro in un bridge che diventa una coda in crescendo, e alle 22.35 una parte del pubblico si alza in piedi. Diventa un altro concerto
Resta tale anche nel pezzo successivo ‘Sisterhood’, dedicata ad Aretha Franklyn. «C’mon Rome, stand up from your seats!», la cantante di Southampton non ammette repliche. L’irresistibile tiro dell’afro-funk, trombe e ottoni sotto a dar più spinta. A ballare è quasi tutta l’intera sala, adesso piena di partecipanti e non solo di spettatori. Non più semplice apprezzamento, ma interazione e rispecchiamento nella relazione tra artista e pubblico.
Se ogni essere umano sulla terra ha la sua personale battaglia di vita, io ho scelto la mia. Ogni volta che sul palco ci sono una batteria e un basso, che suonano prevalentemente in 4/4, con i bpm tra i 90 e i 130 bpm, il pubblico pagante deve restare in piedi, inderogabilmente. Per gli artisti, che si ricaricano di energia; per sé stesso, che si diverte molto di più; per la recensione del concerto, che sarà scritta in modo più avvincente e caloroso. A Roma non esistono posti al chiuso di media capienza, progettati in modo specifico per la musica pop e rock. Ci si adatta con quello che c’è, da strutture nate per lo sport a sale perfette per la musica classica.

Parentesi chiusa (per ora). Patty Smith e Aretha Franklyn sono due delle artiste alle quali Sarah Jane Morris ha dedicato “Sisterhood”, disco uscito lo scorso anno. Scritto insieme alla sua metà artistica, Tony Remy, racchiude dieci canzoni, ciascuna delle quali omaggia la vita e l’essenza artistica di dieci figure femminili, pietre miliari della musica moderna e contemporanea.
Oltre alle due già citate, sono evocate le presenze di Billie Holiday, Bessie Smith, Nina Simone, Joni Mitchell, Annie Lennox, Richie Lee Jones, Miriam Makeba, Kate Bush. A queste, stasera, si aggiungono Sinhead O’ Connor, Peggy Seeger e Janis Joplin. “Sisterhood” è l’occasione per l’artista dell’Hampshire di raccontarsi attraverso le storie di voci femminili che hanno fatto la storia, rinsaldando un suo legame di “sorellanza” artistica. Una celebrazione della memoria e della sacralità di donne che hanno trasformato la realtà con la loro musica, il loro impegno per i diritti delle donne e delle minoranze, la loro spiritualità.
Tiene molto a questo tour e sottolinea la difficoltà e i costi di portare nei teatri di tutta Europa una band di otto elementi: Tony Remy e Marcus Bonfanti alle chitarre, Gianni Vancini ai fiati, Anders Olinder al piano e tastiere, Martyn Barker alla batteria, Henry Thomas al basso, Silvia Losappio e Otis Coulter ai cori. Nella seconda metà del concerto si aggiungerà a questi un ensemble vocale di dodici persone. Finita qui? Non ancora, in un lato del palco siede Victoria Chapman, amica di vecchia data e di ottimo italiano, alla quale è affidato il ruolo di raccontare, prima di ogni canzone, le delle artiste fonti di ispirazione.
Ma a ispirare è soprattutto la voce di Sarah Jane Morris. Aggressiva, prepotente, con un’incredibile estensione che le assicura versatilità. Passa dal mondo funky, soul e r’n’b’, alle nuances più raffinate del jazz, a quelle più romantiche delle ballad. Canta con il corpo, con una pronunciata gestualità delle mani che rende visibile il livello energetico della musica. Una grande artista, una grande band e un gran concerto. Raccontare musica regala la possibilità di andare oltre le abitudini di ascolto e riconoscere, laddove presente, la qualità. Come stasera.
Nella prima mezz’ora di concerto la canzone che mi emoziona di più si chiama ‘Sing Me a Picture’. Dedicata a Joni Mitchell, sua architrave è l’abbraccio tra le timbriche calde e profonde della sua voce, con la purezza e la lucentezza del sax soprano. Una mescolanza di soul, jazz e ritmiche rock che a me fa impazzire dai tempi in cui entrai in contatto con le Blue Turtles di Sting e Bradford Marsalis.
È quello che ci voleva per sbloccarmi prima dell’arrivo di sonorità gaeliche, chitarre acustiche accarezzate sempre dal sax con il registro più alto. Niente batteria, niente cori. Preghiera, richiesta di pace, da passeggiata sulle scogliere d’Irlanda, ascoltando il vento che flagella il Mare del Nord. L’entrata di un basso ammorbidito nel chorus è accompagnata da una discesa del registro vocale verso timbriche più oscure, come la sofferenza di un’anima tormentata. Quella di Sinhead O’ Connor, catturata in ‘Oh Mother, My Mother’.
Nella grinta e nella cattiveria di ‘Rimbaud of Suburbia’, Sarah Jane Morris e Tony Remy accostano il talento e la creatività di Kate Bush a quello di Arthur Rimbaud, in una crasi tra il nome del poeta francese e il titolo di una controversa biografia della cantante di ‘Wuthering Heights’. Una chitarra a far da tappeto con effetti spaziali, l’altra a svisare con note cariche di distorsione e delay. Mentre una batteria incalzante mi fa vivere corsa impazzita nelle strade di una periferia deserta.
La maestosità dell’impronta gospel di ‘For the Voiceless’, ispirata ad Annie Lennox prepara l’esplosione afrobeat di gioia e di corpi di ‘Miss Makeba’. Ritmiche afro irresistibili e triadi maggiori delle chitarre. La potenza della musica africana e il trionfo della vita là dove a volte la vita non è degna di chiamarsi tale. Chiudo gli occhi durante il coro finale e immagino Soweto. E poi ancora viscere, chitarre nel wah wah, blues e funky in ‘Tomorrow Never Happens’, per una Janis Joplin che conosceva essa stessa la “sorellanza”, al punto di pagare direttamente lei stessa la lapide per Bessie Smith.
Il resto della serata lo ritrovate all’inizio di questo racconto, Janis Joplin invece la ritroviamo di nuovo nella versione reggae di ‘Piece Of My Heart’, bis a chiudere la serata. Ma Sarah Jane Morris ama chiacchierare con il pubblico e resta sul palco. Ricorda Joan Armatrading e Tracy Chapman, il suo duetto con Riccardo Cocciante al Festival di Sanremo del 1991. Sorprende rievocando la sua prima volta a Roma, in apertura del concerto di una giovanissima cantante italiana in rampa di lancio: Gianna Nannini.
Racconta le difficoltà degli artisti oggi, messi spalle al muro dalla digitalizzazione della musica e dai freemium. Ma soprattutto invita a prendersi cura del prossimo. Il gesto di presentare e ringraziare le persone del coro, chiamandole una per una con il proprio nome, riportato anche a commento della foto del suo profilo Instagram, è qualcosa di più di semplice gentilezza.
È ciò che la accomuna Sarah Jane Morris alle tredici donne cantate stasera: è il cuore.