Muse, il rock al tempo degli automi

Roma, 20/07/2019

Partiamo dagli indubbi aspetti positivi: i Muse di Bellamy sono una delle poche formazioni in grado di trasformare i propri tour in una sorta di grande evento, attraverso la definizione di un concept intorno al quale sono davvero bravi a costruire uno spettacolo.
Non solo musica, dunque, ma anche componenti visive, grafica e gusto un po’ retrò.
Certo, poi c’è anche la loro musica che dal 1994 sembra conoscere molti alti e pochi bassi.
Intendiamoci, al di là di un certo gusto in parte discutibile, i riferimenti culturali dello show di questo “Simulation Theory World Tour 2019” sono molteplici e alti – c’è il pensiero di George Orwell e le linee musicali del primo Vangelis, specialmente ad inizio concerto in brani come ‘Propaganda‘, ‘Uprising‘ e ‘Psycho‘, con chitarre fortemente distorte e bassi al massimo del sopportabile.
La prima parte dello show corre via molto tirata come nel loro classico ‘Time is running out‘, scivolando via come le parole in “Blade Runner”.

Anche in questo show Bellamy e soci mettono in scena il futuro: un tempo fatto di robot e automi, dove l’essere umano sembra uscire sconfitto, come si evince dall’esercito robotico che accompagna la band in tutta l’esecuzione del concerto.
Persino il mostro che nel finale del concerto prova a fare sue le ultime tracce dell’umanità rappresentata dagli stessi componenti della band.
Non manca anche una tendenza un pò “tamarra” di Bellamy che mischia tutto in una sorta di “Mad Max” che manda in visibilio il pubblico (tanto!) presente allo Stadio Olimpico.
La scaletta recupera molto dagli esordi della carriera dei Muse, riadattandola al tema meccanico del tour, ma la forza di certi brani rimane intatta: ‘Plug in  Baby‘, ‘Supermassive Black Hole‘, ‘Pressure‘, ‘Starlight‘ e ‘Madness‘ su tutte. 
Il finale è naturalmente esplosivo con la band che esalta tutta la propria capacità tecnica nella jam che racchiude ‘Stockholm Syndrome‘, ‘Reapers‘, ‘New Born‘ e ‘Assassin‘.

Però, e qui veniamo ad alcune perplessità strutturali, rimangono una certa freddezza e la sensazione di assistere a show perfetti ma sin troppo simili.
Il richiamo ad un futuro bionico ben si adatta al nuovo mood del gruppo ma probabilmente i Muse potrebbero fare uno scatto in più.
La voce di Bellamy in certe situazioni, specie a inizio carriera, ha ricordato spesso quella del primo Thom Yorke, e quando ha voglia di cimentarsi con il suo alter ego acustico i risultati sono evidenti, come accaduto nella bellissima ‘Dig Down‘.
L’evoluzione della band, al contrario, ha portato i Muse ad essere una super macchina mainstream, perfetta per uno show ai Grammy’s ma della quale si percepisce l’incapacità di fare uno scatto qualitativo in più.
Un pò come i 30 Seconds to Mars di Jared Letho
La sensazione che dietro questa bravura tecnica si sia potuto costruire qualcosa di qualità artistica maggiore mi rimane addosso, anche alla fine di un concerto – show nel quale luci, colori, grafica e scenografia fanno a gara con i suoni (anche se l’acustica dello Stadio Olimpico rimane ignobile).
Ripenso ad una frase dell’antipatico (si fa per dire) Noel Gallagher, che in una delle sue interviste giovanili disse che «ai concerti si deve andare per la ascoltare musica, per il resto c’è il circo».
Severo ma giusto, anche per i Muse.

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