Una metafora della giovinezza che ci spinge a compiere imprese impossibili: Gruff Rhys a Bologna

L’interesse di Gruff Rhys verso la valorizzazione della cultura gallese è noto fin dai tempi della band alternative-rock Super Furry Animals (che al pari dei colleghi Gorky’s Zygotic Mynci non ha mancato di pennare pezzi pop nell’idioma di Dylan Thomas).

Non riesco ad immaginare quanti dei numerosi convenuti al live di Gruff Rhyss al Covo Club di Bologna si aspettassero il tipo si spettacolo che è stato proposto dal cantautore di Haverfordwest, soprattutto in concomitanza della serata a tema brit-pop con i DJ di Cool Britannia.
E non immagino neanche quale gruppo o artista d’apertura potrebbe essere adeguato ad accompagnare ed introdurre uno show del genere, se non forse qualche stand-up comedian alla Andy Kaufman.

L’allestimento del palco è inusualmente minimale: oltre a una superficie d’appoggio ed un armonizzatore vocale vicino ad una sedia, ad attendere il cantante c’è un piccolo telo per le proiezioni, come quelli che si usavano nelle scuole superiori per riprodurre diapositive e vecchi filmati scientifici.
Gruff Rhys sale sul palco passando tra il pubblico con un super pelosissimo copricapo druido a forma di testa di lupo alla guisa di William Price e un grande cartello da dimostrante, ritraente uno strano personaggio fumettoso dai tatti quasi vampireschi.

Ora, per descrivere il tipo di esperienza pensata e preparata da Gruff con un futile esercizio di stile, avrei dovuto dividere la recensione in capitoli e narrarvi, con qualche espediente pinteriano e pretestuoso, di qualche lontano evento non pienamente riconosciuto dalla storia su come qualche oscuro personaggio Romagnolo sia stato in realtà determinante per gettare un ponte tra la cultura locale e quella celtica, cercando tracce ed analizzando indizi rilevanti per stabilire una connessione diretta tra Raoul Casadei e Alun Hoddinott, ma dal punto di vista di Geraldus Cambrensis.

“Prima di iniziare vi farò vedere un documentario di otto minuti”, ci avvisa Gruff. “Parla di un principe gallese chiamato Madog e di come si pensa che possa avere scoperto l’America nel 1170, molto prima di Cristoforo Colombo. Poi inizieremo il concerto. È a vostro beneficio”.

Il documentario, che avevo erroneamente presunto parodistico, prende in realtà spunto da una leggenda realmente narrata in Galles, prodromo che introdurrà il tema portante di tutta la serata nonché la storia portante di American Interior,  ultimo concept album di Gruff Rhys.
Esplorando impavido un filone già affiorato nei dischi pop degli irlandesi The Thrills e The Jeevas, e più velatamente da Elvis Costello in King of America, i britannici reinventano e si riappropriano dell’immaginario collettivo americano facendolo proprio, trasformando storie di Indiani e Cowboy, corse su grandi praterie ed esplorazione di territori sconfinati lungo il Missouri in quadretti pop sospesi tra romanticismo e fumetto.

Protagonista della narrazione il suo connazionale John Evans, l’Ulisse della situazione, che intorno al 1790 fu l’unico Gallese ad accogliere l’appello del filantropo Iolo Morganwg di organizzare una spedizione in America per indagare sulla leggendaria tribù indiano-gallese dei Mandan.
Nonostante la comprovata rilevanza storica dell’eroico John Evans non esistono ritratti di questo pioniere: per questo Gruff ha realizzato un pupazzo in stile Jim Henson utilizzato in una serie di ironiche diapositive mostrate dutante il concerto.
È suo il ritratto sull’insegna portata sul palco.

Durante il live ogni canzone viene inframezzata dalla narrazione documentaristico-confidenziale del canante: è difficile capire quanto di ironico ci sia in questo tipo di spettacolo e quanto invece sia dettato da un genuino impulso creativo.
In fondo, tutta la storia di John potrebbe essere una metafora della giovinezza che ci spinge con il suo fanciullesco idealismo a compiere imprese impossibili e a cacciare unicorni per compiere imprese diversamente e collateralmente leggendarie ma lasciarci morire con l’angosciante rivelazione che non c’era solo del marcio dall’altra parte dell’arcobaleno.

Entrambi gli elementi sono dosati in modo calibrato e difficilmente scindibile, un po’ come capita ogni volta che uno straniero si trova ad affrontare la tiepida e fervida irrealtà del famigerato humor inglese, dove il sostantivo sta a sottointendere non tanto il termine italiano “umorismo” bensì uno stato al contempo ironico ed elegante – un po’ come il contrasto tra il completo del cantante ed il copricapo demenziale.
Il tutto è sostenuto da un performer magnetico che non ha mai smesso di offrire ai fan pop di qualità, riuscendo a tenere accesa l’attenzione del pubblico armato di sola voce e chitarra facendo di timbro e melodia un aggancio perfetto in grado di catturare e rapire tutti gli spettatori.
Altrimenti, col cavolo che saremmo qui a parlare delle gesta di John Evans, narrate con la stessa meticolosità e precisione di un detective che si trova ad esporre e esaminare tutti gli elementi dell’indagine!
Parzialmente complice l’armonizzatore elettronico, la voce del cantante di Ffa Coffi Pawb, Super Furry AnimalsNeon Neon ha dimostrato un miglioramento considerevole rispetto alle passate esperienza live: è in grado di coprire diversi registri in modo pieno, preciso e potente ma all’occorrenza caldo e delicato in un territorio sospeso tra il Damon Albarn più pacato e sognante e il Ray Davies di The Village Green Preservation Society.

Con diapositive, metronomi usati come ritmica minimale, drum machines registrate a casa su vinile per non rovinare la resa lo-fi dello spettacolo, insegne che inneggiavano all’incitamento, slide e didascalie…la resa live del siparietto itinerante di American Interior ha regalato al pubblico uno spettacolo invero, più incline ad un happening studenteso in stile College Anni ’70 che un dozzinale concerto da club.

L’onore guadagnato sul campo da Gruff Rhys nella breve storia del pop alternativo degli anni ’90 e 2000, unito alla indiscriminata e potente esterofilia del nostro pubblico, hanno fatto modo che l’hipster-trend più in voga e meno praticato del momento sia diventato per una serata realtà, facendo del libro scritto dallo stesso cantante su John Evans American Interior il gadget più gettonato dell’evento mostrato con orgoglio dagli avventori più indie-snob del locale.

Dopo la Scozia, anche il Galles è pronto per un nuovo referendum grazie a Gruff Rhys.
Parola di John EvansLiberty Is Where We’ll Be.

Photogallery del concerto

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Mark Zonda

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Mark Zonda debutta come editor musicale nel 2003 per Ephebia arrivando in breve tempo ad intervistare artisti del calibro di Emiliana Torrini e i Cardigans, non mancando di curare diversi live reports su è giù per l'Italico Stivale. Cercando una voce indipendente gestisce nel tempo i blog 7Sunday5, SleepWalKing (curandone anche un podcast in Inglese settimanale) gestendo un gruppo di scrittori musicali internazionale e Loft80, prima di iniziare la sua collaborazione con Oca Nera Rock. Mark fa inoltre parte di un progetto musicale indie pop chiamato Tiny Tide ed uno più cantautorale a nome Zondini Et Les Monochrome, con il quale è stato candidato al Premio Tenco nel 2013. Nel 2009 fonda l'etichetta KinGem Records. Mark lavora come copywriter e ha pubblicato il romanzo breve "Dodici Venticinque".

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