Hauser, (auto)celebrazioni dal sapore latino americano

«Ti ho segnato il 20 ottobre; Stjepan Hauser al Palazzetto dello Sport. Faccelo un pezzo su un uomo bello, basta Paola e Chiara ed Elodie»

Questa storia inizia martedì 10 ottobre 2023 alle 10.37 con questo messaggio di prima mattina.
Leggo Palazzetto dello Sport anziché Palazzo dello Sport e sorrido pensando alla non origine romana di colei che scrive.
Traduco Palazzetto con Palazzo, un afflato romantico mi scalda il cuore per aver omesso il suffisso che rimanda al naming rights dello sponsor.
Chiamatelo come vi pare, per me sempre PalaEur.
Insomma, accetto in men che non si dica, pensando di acquisire forza negoziale per poi chiedere l’accredito per il concerto della signorina Di Patrizi, from Quartaccio.

Per i meno informati, Stjepan Hauser è la metà esatta dei 2Cellos, duo sloveno/croato di prestanti giovani violoncellisti, assurti a fama imperitura oltreché per le loro indiscutibili doti estetiche, per le capacità tecniche sullo strumento.
E per aver avuto l’idea di realizzare cover di hit pop/rock, pubblicando dischi, inanellando tour mondiali in sequenza, collezionando decine di milioni di visualizzazioni sui canali social e sulle piattaforme di streaming.
Insomma, per aver svoltato.

Il duo si separa nel 2021 e Stjepan Hauser passa dalle cover rock al mondo del pop latino/americano.
Nel 2022 esce “The Player”, primo disco solista, e parte il tour mondiale che nel 2023 lo vede in Italia nel mese di ottobre per quattro date: Milano, Roma, Firenze e Jesolo.
Intanto i fan sono in attesa del suo disco di Natale, preannunciato urbi et orbi da un’annunciazione di tutto rispetto: «che Natale sarebbe senza un mio disco?».

Preavviso: nelle prossime righe potreste intravedere un velato pregiudizio radical chic.
Non mi sento di smentirne al 100% la presenza.
A voi decidere sulle parole del prossimo paragrafo.
Se foste persone dotate di ironia, potreste comprenderne il significato sotteso.
La mia coscienza personale e la mia etica professionale sono a posto; in altre parole, mi sono appena parato le terga.

Hauser

Partiamo dalle basi.
Esistono due tipi di concerti: quelli con gli abusivi che, fuori dai cancelli, vendono le fascette e quelli senza.
La differenza la fa la tipologia degli spettatori.
Nel primo caso fanbase ampia, fidelizzata ai limiti – a volte anche oltre – dell’adorazione religiosa verso l’artista.
La maggioranza del pubblico acquista il biglietto mosso dall’attrazione per l’artista e non per la musica.
Un pubblico che diversi anni fa, Enrico Manca, presidente della Rai nella seconda metà degli anni Ottanta, avrebbe definito “nazionalpopolare”, coniando un neologismo destinato a far storia.
Un pubblico da cd di “best of…” acquistati in autogrill, da serate Candle of Rock, da Renzo Arbore e l’Orchestra Italiana.
Un pubblico che accorre a vedere un prodotto pensato e presentato per una precisa fetta di mercato.
Se fossimo in uno stadio di calcio li potremmo definire “gli occasionali della musica”: attirati dall’evento e dalla confezione, prima che dal contenuto.
Ecco, io normalmente mi tengo a distanza di sicurezza da certi eventi: non ne percepisco autenticità e credibilità.
E alla fine, generalmente, mi annoio.
Se sono qui è solo per Elodie.

Che siano occasionali lo si capisce appena arrivo.
C’è chi con espressione sperduta cerca il cancello giusto per entrare (e al terzo tentativo riesce nell’intento).
Qualcuno, più occasionale degli altri, confonde i Vigili Urbani con gli addetti dell’organizzazione e chiede loro informazioni.
Chi chiama a raccolta i familiari.
Chi si aggira tra le biglietterie con voucher.
Ovviamente il cancello di entrata lo sbaglio clamorosamente anche io e incasso il colpo con distacco.
Entro abbastanza velocemente, ho lasciato il mio zainetto portatutto in macchina ed evito la fila dei controlli.
Arriva il solito brivido del caro vecchio PalaEur, dove tutto per me iniziò il 4 dicembre del 1985.
Voglio un gelato e una bottiglietta d’acqua.
Mi metto in coda, arrivo alla cassa e chiedo una birra.
«Sono 6 euro. Ma la vuole bionda o rossa?»
«Beh, se la mette così allora dico rossa»
«Allora 7 euro»
«Allora bionda».
La cassiera sprizza simpatia da tutti i pori, con la ragazza dell’organizzazione addetta all’accoglienza invece è subito empatia.
Sommersa da decine di richieste sui diversi settori, io le chiedo del bagno indicando la birra a digiuno e aggiungendo che oggi per l’incontinenza maschile la prevenzione è tutto.
Ride – forse di gusto – mi basta questo, la saluto, le auguro buon lavoro e prendo posto.

Al centro del PalaEur, nel secondo dei tre settori a partire dalla platea. in prima o seconda fila.
Ultimo posto a destra.
L’età media del pubblico scende man mano che ci si allontana dalla platea.
C’è una discreta affluenza, ma forse qualcuno si aspettava di più.
Alla mia sinistra una famiglia: la mamma siede accanto a me, poi i due figli, infine il papà.
Le casse diffondono musica da camera, quartetti d’archi impegnati nell’esecuzioni di classici buoni per tutte le stagioni.
Insomma, in sintonia con quanto sta per accadere sul palco.
E accade.
Preceduto da un primo piano sul megascreen, Stjepan Hauser entra esibendo il suo violoncello elettrico come un bottino di guerra. Camicia grigio antracite (avrei voluto dire blu estoril, ma niente da fare) fuori dai jeans, barba disegnata da una sapiente mano, sguardo ammiccante.
Gran figo, nulla da dire.
È lavoro per endocrinologi: i livelli di estradiolo, LH e FSH nel PalaEur salgono oltre i limiti di guardia.
Si difende bene anche il testosterone.
L’artista croato si prende il centro della scena, sale su un podio circolare, alla base del quale campeggiano in caratteri cubitali le lettere del suo cognome, casomai qualcuno – o meglio, qualcuna – lo dimenticasse.
Yngwye Malmsteen rosicherebbe non poco.
Intorno si dispiega la sua orchestra: un ottetto d’archi al femminile (due violoncelli, due viole e quattro violini); due fiati (sax tenore e tromba); batteria, percussioni e piano elettrico.

Ma lo spettacolo nello spettacolo sono i video che scorrono sul megascreen durante i pezzi.
Primi piani del suo volto, rari gli indugi sulle mani che suonano.
Tutto, o quasi, preregistrato, ma in sincro con la musica suonata live.
Vengono qui per vederlo, non certo per ascoltarlo.
Allora è giusto sia così.
La signora alla mia sinistra applaude elettrizzata a ogni brano.
Io riconosco, almeno nel punto in cui mi trovo ad ascoltare, una buona acustica, cosa più unica che rara qui.
E poi il concerto.

Già, il concerto che entra nel vivo al secondo pezzo con il tema de “Il Padrino”, cui segue quello de “Il Gladiatore”.
Penso per un attimo che il racconto potrebbe anche terminare qui.
Decido di andare avanti.

Dopo tre pezzi arriva l’immancabile «buonasera Roma», ma non si ferma qui.
«Prossime canzoni bellissime romantiche… don’t fall asleep».
Voce profonda, follicoli ovarici in sussulto e l’attacco inequivocabile di ‘My Heart Will Go On‘, main theme di “Titanic”, precede di pochi secondi l’apparire di un cielo stellato sul megaschermo, seguito dal transatlantico naufragato la notte tra il 14 e 15 aprile 1912 al largo dell’Isola di Terranova.
Istintivamente tocco “metalli umani” come avrebbe detto il mai abbastanza rimpianto Beppe Viola (primo compito per casa: googlare Beppe Viola).
Lo spettacolo ha bei suoni, ma è tutto banale e privo di spontaneità.
L’effetto juke box prosegue con ‘Caruso‘ e se la speranza di emozionarmi un pizzico arriva con ‘Hallelujah‘ di Leonard Cohen, questa viene subito castrata dal coretto del pubblico che parte sul ritornello e che Hauser prontamente ha l’idea di mettersi a dirigere.

Il pubblico dà il suo meglio anche durante l’esecuzione del valzer numero 2 di Dmitri Shostakovich: un paio di coppie iniziano a ballare sottopalco.
Un pezzo classico ha senso e va bene l’arrangiamento con il pizzicato dei violini, ma dura poco: i 5000 del pubblico pensano bene di battere le mani sull’uno della figurazione ritmica e uccidono tutto.
Vojo mori’.
Libertango‘ di Astor Piazzolla non è male: l’esecuzione è intensa, passionale e le luci rosse rafforzano l’impatto.
I musicisti sono eccellenti e il pezzo ha presenza, grinta e potenza.
Ci può stare, ma per un passo avanti ne fa due indietro con la colonna sonora de “I Pirati dei Caraibi”: l’immagine sul megascreen, al violoncello truccato e vestito da pirata simil Johnny Depp, la appaio al cartonato a grandezza naturale di Jason Momoa donato a Chiara Iezzi dai fan un mese e mezzo fa.
Poi esce di scena e sul palco restano batterista e percussionista, con i loro soli, a godersi il loro momento e scatenarsi negli assoli.

E qui è la svolta del concerto.
Entrano chitarrista (sparando un solo metal, un po’ caciarone all’inizio, ma che migliora strada facendo) e bassista e ci si sposta sui ritmi e i suoni latino-americani.
Inaspettatamente per me, lo spettacolo sale di livello e diventa più coinvolgente.
Rientra dopo un cambio di camicia, stavolta bianca, che rivela qualche indugio nei piaceri della tavola e inanella una sequenza che infiamma la platea: Jennifer Lopez, Ricky Martin, Luis Fonsi, Madonna.
Le ragazze dell’ottetto di archi abbandonano la compostezza classica, si librano in ancheggianti battimani e concedono qualcosa anche al pubblico della seconda metà del cielo.
Le fan più giovani e scatenate si alzano in piedi e raggiungono il sottopalco.
Hauser chiede a una security mugugnante di permettere ai fans di divertirsi.
Si alzano i volumi, va a picco l’acustica, ma il PalaEur questo è da sessant’anni.
Coming out? E sia.
Attacca ‘La Vida Loca‘, mi alzo in piedi e il mio bacino comincia ad andare da solo.
Segue altro picco endocrino: durante l’esecuzione di ‘Despacito’ lancia l’asciugamano sudato a delle prime file ormai in pura trance.

Hauser

Adesso la musica si regge sulle spalle della band.
Protagonista è il percussionista che fa anche da vocalist, mentre Hauser si concede allo show.
E poi il climax: su ‘Waka Waka‘ scende in platea scortato dalla security.
Mi godo scene da addio al nubilato, con distinte e insospettabili signore che allungano le mani, anche solo per sfiorare un lembo della camicia.
Fa il giro completo per accontentare tutte e una volta tornato sul palco attacca ‘Bella Ciao‘ attorniato nuovamente da luci rosse.
Il finale è in crescendo e con il beat che accelera tiratissimo tra centinaia di donne trasformate per qualche minuto in pasionarie ribelli: Giovanna Daffini non so cosa avrebbe pensato.
Secondo compito per casa: dopo Beppe Viola, googlare Giovanna Daffini e poi ritornare qui a terminare la lettura.

Tra altri brani latini trascinanti, in cui sono inseriti medley di varia estrazione – da ‘Seven Nation Army‘ a ‘No Woman, No Cry‘, passando per ‘Mas Que Nada‘ si arriva alla fine del concerto.
Non ho problemi, né timori nel riconoscere meriti alla seconda parte: sono tornato indietro di vent’anni e mi trovo a Fiesta (i romani sanno di cosa stia parlando).
Oppure a un matrimonio con 5000 invitati in cui sta suonando una band trascinante.
Alla fine, la seconda ora è stata piacevole.
Non è Mstislav Leopol’dovič Rostropovič, e l’Arte con la maiuscola abita altrove, ma sono certo – almeno spero – che sia lui il primo a saperlo.
Però fa il suo: si circonda di ottimi musicisti e si spara due ore di concerto.
In alcuni momenti esagera e l’autocelebrazione di sé tende a debordare nel trash, ma basta avere senso dell’umorismo e ironia e si diverte anche chi ascolta gli Spiritualized e i My Bloody Valentine.

Non appena finisce il concerto e si accendono le luci del PalaEur, vedo tutti alzarsi dai posti e darsela a gambe come se non aspettassero altro: si svuota in pochi istanti.
Forse il divertimento era di facciata, o forse i primi a scattare in piedi sono stati i fidanzati e i mariti.
Forse non si può chiedere di più agli “occasionali” dei concerti, forse si è fatto troppo tardi e siamo ai limiti con l’orario di libera uscita. L’ultima ipotesi prende forza quando in zona merchandising una voce di giovane donna cattura la mia attenzione: «Vieni, nonna. Usciamo da qui».
È tutto.
Ora mi manca Elodie.

Roma, 19 ottobre 2023

Photogallery

© Stefano Panaro

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