Fatoumata Diawara, l’impegno come donna e artista

«Purtroppo, non possiamo continuare lo spettacolo per problemi tecnici. Dobbiamo fermarci, resettare tutte le macchine e poi ripartire».

Che qualcosa non andasse era evidente già dopo pochi secondi dall’attacco del primo pezzo.
Problemi di suoni che non sono quelli che dovrebbero essere.
Entra un tecnico e va ad armeggiare con il setup di effetti di una chitarra ma il bug è più grave di quanto immaginato: sono costretti a spegnere e resettare tutto; computer, mixer, effettistica, microfoni. Si accendono le luci di sala mentre Fatoumata Diawara rimane sul palco a intrattenere con eleganza e professionalità le circa duemila persone – forse anche qualcosa di più – giunte ad ammirarla per il gran finale del Roma Europa Festival

Non credo possa andare in crisi per così poco.
Nasce in Costa d’Avorio; sono in undici tra sorelle e fratelli.
Ribelle e irrequieta, lascia la scuola a 12 anni. I genitori la allontanano di casa per spedirla dalla zia, a Bamako, nel Mali, dove sperano riprenda la retta via.
Ma il Mali è uno stato pieno di musica e arte, la zia ha lo stesso suo spirito ribelle della nipote e la avvia alla recitazione. Fatou, giovanissima, abbraccia il teatro con passione e successo. Nel 1998 ha sedici anni ed è chiamata dalla Royal de Luxe, compagnia francese di teatro di strada, ma è minorenne e non ottiene l’autorizzazione dei genitori.
Le si prospetta lo stesso triste destino della mamma, cantante promettente, che abbandonò la musica per la proibizione del nonno.
Non le resta che fuggire; è inseguita dalla polizia del Mali, ma riesce nel tentativo e raggiunge la terra d’oltralpe.
Abbraccia la vita, il viaggio, l’irrequietezza e l’arte in ogni sua forma ed espressione.
Qualche anno dopo arriva il tempo della musica; diventa autrice di testi, chitarrista, cantante.
Pubblica quattro album da solista – l’ultimo, “London KO”, uscito nel 2023 è prodotto da Damon Albarn – e si impegna in diverse collaborazioni.
Oltre a quella con il leader dei Blur, si ricordano quelle con Toumani Diabate, Herbie Hancock e Flea.
Stasera è qui a raccontarci aneddoti della sua vita in attesa che chi di dovere risolva la situazione critica sul palco.
Con lei una formazione proveniente da Africa e Sudamerica: Juan Finger al basso, Jurandir Santana alla chitarra, Fernando Tejero alle tastiere e Willy Ombe alla batteria.  Fortunatamente la situazione si risolve, almeno in parte, e il live può riprendere.

Fatoumata Diawara

Brevissima spiegazione per chi fosse digiuno dell’argomento.
In Africa la musica è una componente essenziale della vita e dei suoi cicli: coinvolge allo stesso modo ogni componente di una comunità e spesso non esiste una netta distinzione tra l’artista e il suo pubblico. È incentrata soprattutto sul ritmo, e non può prescindere dalla fisicità e dalla danza. Caratteristica principale è la presenza di diversi ritmi che si sovrappongono all’interno di uno stesso tempo. Si parla in questo caso di poliritmia
Bene, continuerò a ripeterlo alla nausea: so che a Roma la carenza di spazi adeguati alla musica dal vivo è un male endemico della città, ma organizzare un concerto afro costringendo le persone dentro le poltroncine di un auditorium – la struttura concertistica in cui peraltro è più netta e marcata la distinzione tra musicista e spettatore – vuol dire distorcerne il messaggio e limitarne l’impatto in termini di energia e coinvolgimento.

E, infatti, i concerti di Fatoumata Diawara stasera sono due.
Il primo dura circa un’ora, il secondo comincia dalla sesta canzone in scaletta, ‘Dambe‘, estratta da “London KO”, come tutte le canzoni eseguite nella serata. È un brano con atmosfere e suoni giamaicani, che improvvisamente sale d’intensità. Lo fa guidato dalla cassa che suona tutti i quarti, anziché solo il terzo, come normalmente avviene nel reggae e come ha fatto fino a quel momento. Lo fa sulla spinta di un gruppo di ragazze e ragazzi dei Mali, con bandiera in bella mostra.
Hanno resistito, ma adesso si alzano e vengono a farmi compagnia in fondo alla sala: iniziano a ballare, sono cinque – poi sette, dieci, quindici, venti, quaranta. Si aggiungono a loro altri spettatori. Non c’è separazione tra musicisti e pubblico, durante il pezzo successivo, ‘Yada‘, la sfrenatezza coreutica dal fondo della sala arriva dalla stessa artista sul palco e la possiede. La sala Santa Cecilia si scalda e chi fino a quel momento era rimasto compassato segue il beat dei pezzi con il battito delle mani.

Ntara‘ parte con un’intro di piano – che per le orecchie allenate cita un frammento di strofa di ‘Eleanor Rigby‘ –, si sviluppa con una lunga improvvisazione vocale onomatopeica e trionfa in un samba finale in omaggio a Jurandir Santana da Salvador de Bahia.
Si affacciano ancora problemi tecnici, con le backing vocals che entrano improvvisamente nelle casse ad un volume esagerato, ma ormai a nessuno importa più.
Basta un gesto di Fatoumata: duemila persone alzano le terga dalle poltrone e un centinaio e più, guidati dal gruppo del Mali, si scapicollano nel sottopalco per ballare forsennatamente. Cerco di mantenere aplomb e professionalità, ma a chi voglio darla a bere?
Dopo qualche secondo, sono lì anche io a cantare il ritornello di ‘Netara‘ con tutta la sala.

La musica africana è anche rituale che scandisce i momenti importanti di una comunità.
Massa Den‘ parte come una preghiera. E in Africa le preghiere si ballano e si cantano, anche in duemila come stasera. Poi, forse perché non stiamo nei tempi, salta l’ultimo pezzo previsto in scaletta e va direttamente al bis. ‘Anisou‘ è cerimonia di purificazione, liberazione dal male attraverso la danza. Indossa una maschera sul volto e abbandona ogni suo muscolo all’incastro poliritmico, con le diverse parti del corpo che si muovono seguendo i diversi ritmi. Infine, si libera della maschera e la offre al pubblico.
Mi sento come appena uscito da un esorcismo mentre si imprime nella mia retina l’abbraccio tra lei e suo figlio, che si affaccia timidamente sulla destra del palco

La prima parte del concerto la lascio alla fine. Se dovessi parlare solo di musica me la caverei con poche righe: il suo incedere da regina, il suo abito coloratissimo, i suoni morbidi e caldi, le saturazioni valvolari rock blues delle chitarre, l’inserimento a sorpresa del moog, le influenze jazz.
E un pubblico ancora un po’ intimidito.
Ma c’è di più nella prima parte: c’è il senso del suo fare musica; il suo impegno di donna e di artista.
Il suo rappresentare un popolo intero; quello delle 200 milioni di donne, in più di trenta paesi di Africa, Medio Oriente e Asia, che sono state e continuano a essere sottoposte alla pratica dell’infibulazione. Lo ha fattto scrivendo per loro, solo per loro, ‘Sété‘.
Lo ha fatto soprattutto con il video, la cui première è stata poche ore fa.
E, infine, lo fa stasera, con l’urlo che lancia alla fine della presentazione del pezzo:

«Lasciate stare le nostre figlie»

Roma, 19 novembre 2023

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