I-Days Festival 2018 Day 2: la notte dei lunghi assoli

Seconda giornata di I-Days Festival 2018 nell’area di Experience Milano: la situazione appare da subito molto diversa, perché se il Day 1 si è sviluppato nella cornice dell’Open Air Theatre, una sorta di arena-salotto permanente e a misura d’uomo, per questo Day 2 ci vediamo indirizzati in uno spazio decisamente più ampio, un pratone da grandi eventi rock, necessario per un contesto che sia a misura di Pearl Jam.
Il gruppo di Seattle è headliner di questo 22 giugno, e forse di tutta la rassegna a giudicare dall’affluenza di pubblico.
Un po’ di apprensione ha accompagnato i fan lungo l’intera settimana per i problemi alla voce di Eddie Vedder che hanno fatto saltare la data di Londra, ma sappiamo che nel DNA della band non c’è la propensione a lasciare a bocca asciutta i propri fans, con una certa predilezione per quelli italiani.

Dopo aver dato spazio a nomi più freschi come Lany, The Last Internationale e Catfish and the Bottlemen, quando la folla inizia a farsi densa il compito di testare le numerosi torri acustiche sparse per il campo tocca a una nostra vecchia conoscenza, che già in passato abbiamo incrociato sul palco di un I-Days Festival.
Gli Stereophonics sono sempre una certezza, dall’attacco di ‘C’est la vie‘ alla voce di Kelly Jones che non ha mai bisogno di rodaggio.
La setlist degli Stereophonics è un riassunto dei loro classici da concerto, ‘Superman‘ incisiva piena di basso e chitarra, sovrastata da una voce potente e ruvida, ‘Mr. and Mrs. Smith‘ lunga e vaporosa, e il chitarrone di ‘Maybe tomorrow‘ gorgheggiata e pulita.
La scelta dei pezzi per questo I-Days Festival tende leggermente al morbido, la combinazione piano e voce funziona altrettanto bene, prima di tornare a toccare le corde del rock per il finale con ‘The bartender and the thief‘ e col momento corale di ‘Dakota‘.

Cala la penombra e si alza la brezza sugli I-Days, per accogliere i Pearl Jam.
Si capisce già da subito che vedremo un concerto reinventato, Eddie Vedder legge prima un papiro in un italiano apprezzabile e poi si mette alla prova con ‘Release me‘ e ‘Elderly woman behind the counter in a small town‘, stessi bpm, stesse atmosfere soft, la traccia vocale che sale e mette in evidenza tutta la sofferenza e la difficoltà nell’esprimersi all’altezza del proprio potenziale, ma anche il gran cuore.
Si spinge di più con ‘Do the evolution‘ e ‘Given to fly‘ sembra eseguita a velocità doppia, lasciando cantare il pubblico per non stroncarsi del tutto le corde vocali.
I Pearl Jam adottano stratagemmi alla Bob Dylan, con ‘Wishlist‘ dalle tonalità stravolte, ci danno dentro con le chitarre di ‘Even flow‘ e ricorrono a lunghissimi assoli come per ‘Corduroy‘, per uscire dagli schemi e mettere in scena uno show che sia comunque all’altezza, consci della comprensione e della passione del loro pubblico che è più commosso che arrabbiato.
Daughter‘ la canta tutto l’I-Days Festival, inclusi i sassi e i paninari, ‘Mankind‘ la canta invece Stone Gossard e pure bene.
I pezzi lenti vengono prolungati più di quanto sia usuale per i Pearl Jam, ma ‘Black‘ è un tuffo al cuore incorniciato dagli assoli, mentre un classico trito e ritrito come ‘Alive‘ assume una patina di nuovo.
Per mantenere i fragili equilibri e non mettere a repentaglio la buona riuscita del concerto serve tutto, anche il siparietto nostalgico in memoria di un concerto al Filaforum di diciotto anni fa e dell’incontro con l’attuale moglie Jill, prima del rush finale.

Il pubblico di I-Days Festival può cantare e agitarsi con ‘Rockin’ in the free world‘, un brano che pur mantenendo la paternità di Neil Young è oggetto di stepchild adoption da parte dei Pearl Jam, e poi accendere le luminarie e ondeggiare con l’amorevole finale di ‘Yellow ledbetter‘.

Possiamo ricorrere a un sacco di frasi fatte e luoghi comuni, perché la classe non è acqua e fare concerti è il loro lavoro, e ci mancherebbe altro con tutti i soldi che prendono e comunque non ci sono più i gruppi di una volta.
Sta di fatto che i Pearl Jam si sono divorati il palcoscenico di I-Days Festival in condizioni tutt’altro che semplici, tirando fuori numeri, attributi, tecnica ed esperienza e meritandosi la riconoscenza e la gratitudine che può dare solamente un pubblico di razza, all’altezza della loro caratura.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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