I-Days Festival 2016 Day 2: nuclei di sofisticazione

Il secondo giorno di I-Days Festival 2016 è stato programmato per pensare in grande: all’appello di questo 9 luglio al Parco di Monza rispondono probabilmente i nomi di maggior calibro dell’intero weekend. La risposta del pubblico è eccellente, l’intera area concerti è gremita, e le aspettative sono davvero elevate. Le proporzioni sono ribaltate rispetto al Day 1, in cui l’indie rock faceva da gruppo spalla al suono elettronico di qualità. I nomi scritti in grande sono quelli di gruppi rock con vent’anni di onorata carriera, e di alfieri non etichettabili del post-rock più ricercato e sperimentale, sostenuti negli intermezzi da un’atmosfera elettronica molto ricercata.

Il pubblico è più adulto e maturo, e l’alta affluenza sin dall’orario di apertura del cancello premia anche chi si esibisce sui palchi più piccoli, perché se qualcuno ha optato per l’accampamento nell’arena principale, molti altri hanno preferito fare la spola tra una birra e un tendone, tra un prato e un concerto. Il Red Bull Tour Bus diventa teatro di esibizioni di interessanti volti nuovi del panorama italiano, con il piglio cantautorale innovativo di Phill Reynolds e Buzzy Lao, e direttamente da dietro casa mia (Brescia, Bergamo e zone limitrofe) la quotatissima Joan Thiele e The Union Freego. Il palco BRF Circus prosegue nella tradizione del rock più puro del Brianza Rock Festival, rimanendo sempre nei confini nazional-padani con i Sandflower, i Mr.Kite e i Royal Bravada.

E quando il palco dell’I-Days Festival 2016 si fa grande, cosa succede?
L’Ascari stage, dopo aver dato spazio ai KnKproject, si trasforma in un club con luci soffuse e suoni raffinati, portando alla ribalta il pop sofisticato dei britannici HONNE. Il nero come colore dominante della scena, melodie sceniche ma estremamente sobrie, una voce soul su un impianto elettronico che ha l’effetto di un post-r’n’b, che non si impone ma tiene un profilo basso, per accompagnare senza scaldare troppo gli animi del tardo pomeriggio.

Lo stesso palcoscenico e la stessa raffinatezza, quando cala l’oscurità e Låpsley raccoglie il testimone. Nome d’arte scandinavo ma provenienza inglese per questa ragazza dalla voce calda che non viene mai esasperata o messa in mostra, in perfetto stile nordico. L’atmosfera è impalpabile, e il tiro è contenuto, un freddo azzurro a farla da padrone per una fattura elettronica ben costruita ma dimessa. Anche lei opta per un rilassato accompagnamento senza forzature, per ossigenare i condotti uditivi strapazzati in altri angoli del parco.

Quello che avviene sul Parabolica stage nel secondo giorno di I-Days Festival 2016 è tutto e il contrario di tutto. Col sole ancora alto in cielo, tocca a un’altra giovane britannica inaugurare il palco principale: Shura, venticinquenne e volto emergente del synthpop, che proprio in questi giorni ha pubblicato il suo disco d’esordio “Nothing’s real”, accoglie i primi irriducibili del prato, disposti a tutto pur di conquistare una piazzola in prima fila.

Ma è con gli Stereophonics che arriva la prima vera scossa. Noncuranti della temperatura, occhiali da sole neri come nera è la divisa di tutti i membri della storica band gallese, giubbotto incluso. La voce di Kelly Jones è una sicurezza incrollabile, garantita come i bund tedeschi, e i primi due brani in scaletta lo ricordano anche ai più distratti. ‘C’est la vie‘ e ‘I wanna get lost with you‘ sono pezzi nuovi e buonissimi, in linea con il meglio del loro repertorio. La batteria incipiente è un altro loro marchio di fabbrica, prima di un filotto acustico con chitarrone, aperto da ‘Maybe tomorrow‘. La prima metà del set degli Stereophonics manca un po’ di mordente, privilegiando pezzi soft. Quando poi il tono sale, le chitarre iniziano a vibrare e i brani si fanno belli pieni come ‘Indian summer‘. Un passaggio di Kelly Jones al piano ci porta alla chiusura esplosiva, ‘The bartender and the thief‘ è tiratissima e ‘Dakota‘ è ruvida quanto basta a graffiare le ugole di tutti, che si tratti di amici o di conoscenti di vista.

Il prime time dell’I-Days Festival 2016 Day 2, lo slot più ambito, spetta ai Sigur Rós. Le presentazioni di questo gruppo islandese sarebbero imprecise e un po’ inutili, si tratta di un mondo che non va solamente conosciuto ma capito, e quello che ci si aspetta è un live fuori dal comune. L’impianto scenico è indubbiamente da fuoriclasse, un continuo shock termico tra caldo e freddo, si passa dal crepuscolo all’alba e viceversa. I primi due pezzi, ‘Óveður‘ e ‘Starálfur‘, vengono eseguiti senza apparire, lasciando che sia la scenografica a riempire il palco. E sembra che tra lo stage e la platea ci sia un vetro spesso e trasparente, anche quando fanno la propria apparizione sono comunque lontani e irraggiungibili. Una cura fuori dal comune nell’esecuzione, che rende l’esibizione dei Sigur Rós uno spettacolo da ascoltare più che un’esperienza da vivere. Chi ha dimestichezza con ‘Sæglópur‘, ‘Glósóli‘ o ‘Ný Batterí‘ non è immune al coinvolgimento, ma l’effetto è quello di una bellissima proiezione: se fossero in diretta da Reykjavík non cambierebbe poi granché. Alcuni passaggi più aggressivi trasmettono vibrazioni diverse e accorciano la distanza, ma sono calde parentesi in uno spettacolo dal taglio freddo. Tutto studiato e tutto ben riuscito fino ai minimi dettagli, anche l’uscita tra ‘Hafsól‘ e l’encore con ‘Popplagið‘ non viene lasciata al caso nemmeno per una frazione di secondo. Quello dei Sigur Rós è uno show inappuntabile, un concerto dall’esecuzione precisa, ma il vissuto non è quello che ci si potrebbe aspettare da un gruppo tanto carico di emotività, senza comunque voler mettere in discussione la poesia dalla metrica perfetta che regalano agli occhi del pubblico.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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