Le Quinte in Circolo: Paolo Bernardi

La rubrica di Oca Nera Rock dedicata al pianoforte: ogni mese un’intervista ad un pianista diverso, alla scoperta delle meraviglie di questo magico strumento musicale.

Il primo a prestarsi a questa rubrica è Paolo Bernardi, pianista jazz romano, classe 1973.
Protagonista di numerosi progetti diversi tra di loro come la Big Night Jive Orchestra (tributo a Louis Prima), gli Hot Stompers (tributo a Jelly Roll Morton) oppure il Paolo Bernardi Quartet, Paolo ha recentemente pubblicato “Impressions“, un disco in piano solo molto particolare ed eclettico in cui il suo strumento si circonda spesso e volentieri di una delicata elettronica, evocando atmosfere introspettive e rilassanti.
Questa è la chiacchierata che abbiamo fatto con lui, buona lettura.

«Suonare in solitudine è sempre un’esperienza che mette a confronto un musicista e il suo pubblico»: preferisci stare da solo (sul palco, in studio) oppure ti piace maggiormente essere accompagnato da altri musicisti?

Diciamo che l’esperienza del piano solo è molto stimolante, ma è anche molto “onerosa” da un punto di vista sia creativo che emotivo; essa richiede una preparazione, per così dire, spirituale che non sempre facilmente si ottiene, per cui, come condizione normale, preferisco suonare accompagnato dal gruppo.
Anzi, io amo molto le formazioni estese e suono comunque spesso in quartetto con un solista (sax, tromba o voce che sia) oltre che con la sezione ritmica (contrabbasso e batteria). Ciò non toglie che in alcune fasi importanti della mia vita artistica io senta la necessità di esibirmi in piano solo o comunque registrare in studio tale esperienza musicale, come nel caso di “Impressions”.

“Impressions” è il tuo ultimo lavoro, pubblicato a dicembre. Come nasce l’idea di questo disco? Cos’è cambiato musicalmente da quel primo disco in piano solo, “My Showcase”?

Impressions” nasce dal desiderio di aggiungere anche la mia “voce” nel mare magnum dei lavori in piano solo di atmosfera sostanzialmente lounge.
L’idea originaria è stata quella di un confronto con musicisti, soprattutto italiani, che negli ultimi decenni hanno proposto loro lavori in questa dimensione. Quello che ho notato, ascoltando molti cd in merito, era la quasi assoluta assenza dell’improvvisazione.
Ho pensato che potevo “ritagliarmi” un piccolo spazio tra loro con questo mio lavoro, visto che invece io non sono alieno da questo approccio, che anzi mi gratifica e, credo, aggiunga un ulteriore spessore alle composizioni originali.
Per il primo cd in piano solo che registrai nel 2011, “My showcase“, l’idea di base era diversa: era un disco certamente più impostato su canoni jazz, in cui davo spazio maggiore a standard e a temi famosi, colti anche da ambiti diversi (musiche da film, tango, ecc.) che comunque avevano influenzato la mia crescita musicale, limitando il numero dei brani originali. In questo ultimo lavoro invece la presenza di pezzi miei è quasi totale, a parte due musiche, e l’atmosfera generale è più vicina a sonorità “ambient”, come spiegavo prima, che swing. Non a caso ho voluto sperimentare qui anche l’utilizzo dell’elettronica – la cui sola idea in passato mi avrebbe inorridito! – curata genialmente da mio fratello Fabio, che, peraltro, firma anche un brano nel cd.

Parliamo sempre del Bernardi pianista, da solo: perché proprio il pianoforte? Quali sono stati gli artisti che ti hanno spinto a studiare questo strumento?

Come penso sia accaduto a tanti ragazzini, spesso si inizia a suonare quasi per gioco, perché magari in casa si ha un pianoforte, o, peggio, come in casa mia, una tastierina Bontempi!
Poi l’ascolto di Chopin e Debussy, ma, più tardi , anche quello di Bill Evans e Oscar Peterson mi hanno aiutato a maturare una mia coscienza musicale. Dal gioco alla dedizione, la mia passione non è scemata e anzi…eccomi qui!
Con tre diplomi di conservatorio alle spalle e parecchie soddisfazioni anche come compositore e arrangiatore, aspetti che considero altrettanto complementari e formativi per la personalità artistica di un musicista di oggi.

Se non avessi scelto il pianoforte, quale strumento ti sarebbe piaciuto studiare?

Direi che mi ha sempre attratto la batteria (nel jazz!) e non è escluso che prima o poi la studi seriamente. Per un pianista jazz avere la perfetta padronanza del ritmo è a dir poco essenziale!

Immagina di dover fare un concerto, solo pianoforte, a quattro mani: con chi ti piacerebbe farlo?

Bellissima domanda! Sarei onorato di dividere la tastiera con Enrico Pieranunzi, il mio mito e modello di pianista. Per la simpatia dimostrata, in passato, nei miei confronti, anche con Danilo Rea, altro punto di riferimento del mio pianismo in questa fase.

Hai un brano a cui sei particolarmente affezionato, che non ti stanchi mai di eseguire o di ascoltare?

Amo molto lo standard ‘Stella by starlight‘ di Victor Young.
Ne ho inciso una versione nel mio primo cd in quartetto (Fahrenheit project, Dodicilune, 2010) e mi piace proporla nei vari organici con cui solitamente mi esibisco. Ha un’armonia molto stimolante per il solismo e, grazie proprio a questa risorsa, possiede la magia di poter essere suonata come un brano più tradizionale, ma concede contemporaneamente incredibili aperture sonore verso approcci molto più moderni.

Una dei tuoi maestri in passato è stata nientemeno che Rita Marcotulli: com’è stato imparare da lei?

E’ stata un’esperienza magnifica e molto formativa.
Rita ha dimostrato di essere una musicista “a tutto tondo” estremamente preparata e piena di curiosità per qualsiasi musica (e questo lo dimostra continuamente nei suoi dischi e concerti); questa sua energia positiva la riversa poi senza riserve sui suoi allievi e questo, penso, sia il suo insegnamento e dono per noi più grande.

Cosa consiglieresti a qualcuno che vorrebbe cominciare a studiare il pianoforte?

Consiglierei di studiare subito sia la tecnica e le composizioni dei classici, che il jazz e l’approccio all’improvvisazione. Penso che oggi, per chi voglia fare il musicista, siano due aspetti imprescindibili per il proprio bagaglio di cultura musicale.

Sei un jazzista romano: cosa pensi della situazione del jazz a Roma? Secondo te si dà la giusta importanza agli artisti di questo genere oppure trovi che le serate scarseggino? Cosa si potrebbe fare per migliorare le cose?

Tasto dolentissimo!
Nel giro di pochi anni ho visto peggiorare così tanto le cose qui a Roma – ma ben sapendo che è, la nostra, una situazione purtroppo generalizzata in tutta la Penisola – che mi sono sinceramente spaventato.
Le opportunità di esibirsi dal vivo nel classici jazzclub, vera “palestra”, un tempo, per sperimentare la validità dei propri progetti musicali e “vetrina” per emergenti e star, sono sempre più ridotte proprio perché di veri jazzclub non ce n’è quasi più l’ombra. Quei pochi rimasti sono caduti nel riprovevole equivoco di considerare i musicisti soprattutto dei PR, chiedendo loro di fornire pubblico e dimenticando a bella posta che questo è un ragionamento che può valere solo per dilettanti sedicenti musicisti, che possono permettersi di spendere il loro tempo al telefono a coinvolgere amici, piuttosto che trascorrerlo sui loro strumenti.
La soluzione? I proprietari dei locali dovrebbero tornare a fare il loro mestiere e così i musicisti potrebbero svolgere il proprio al meglio. I finanziamenti per i grandi eventi poi ci sarebbero pure e gli spazi anche.
L’Italia è il paese con più jazz festival d’Europa!
Ma l’anello si interrompe appena si parla con gli organizzatori: non c’è il minimo interesse a puntare su progetti nuovi, su chi tenta di emergere dicendo qualcosa di personale (non necessariamente “nuovo”: l’originalità forzata è altrettanto ridicola del “talebano” rinchiudersi dietro etichette stilistiche).
Si punta solo su nomi sicuri e quindi tale primato si perde inesorabilmente. Con i finanziamenti pubblici che annualmente vengono stanziati (e non sono pochi soldi) tutti i meritevoli dovrebbero aver diritto ad esibirsi, proprio perché sono soldi di tutti i contribuenti. La soluzione è sotto gli occhi, ma in periodi di crisi si fa prima a dire che alla gente non interessa certa musica e balle del genere.
La gente, se opportunamente coinvolta, apprezza sempre con calore l’impegno di un musicista dal vivo. Soprattutto se egli, in quel momento, si esprime sinceramente con chi lo ascolta.

Progetti in cantiere? A cosa stai lavorando?

Di progetti ne ho perlomeno tre in testa!
Un nuovo jazz trio in omaggio alla musica di Leonard Bernstein, grande compositore americano.
Il terzo cd del quartetto a mio nome, di nuovo improntato a pezzi interamente firmati da me, come nel primo disco, e dopo la parentesi del secondo che omaggiava invece Charles Aznavour. Infine, perché no? un altro disco in piano solo che possa mettere in luce anche un mio aspetto compositivo finora da me stesso celato: la scrittura molto attenta e vicina a certi canoni comuni alla musica colta degli ultimi decenni e l’immancabile “spezia” dell’improvvisazione, che sto infatti orientando verso una maggiore attenzione e consapevolezza a più recondite e ricercate sfumature ritmiche.

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