Sziget Festival 2023: la pagella con i voti ai concerti

Sopravvalutiamo le nostre idee.
Le esperienze sono più importanti delle nostre convinzioni sul funzionamento del mondo: ci aggrappiamo ad esse per non sentirci sopraffatti da una realtà troppo complessa per le limitate capacità di lettura del nostro cervello.
Ma credo ci faccia bene metterle alla prova: talvolta, abbandonarle arricchisce (o semplicemente diverte e basta).

Ed io mi sono molto divertito nel metterle da parte per fare la cosa che ritengo più inutile e senza senso: sedermi dietro una cattedra, armarmi di penna – ovviamente stilografica – e dare i voti ai concerti visti sui palchi più grandi dello Sziget Festival 2023.
Ho aggiunto qualche riga a motivazione della mia scelta e non ho usato un criterio unico: a volte è stato il gusto personale, altre volte aspetti più tangibili quali il contesto e il momento della fruizione, la simpatia dell’artista – intesa nel senso greco di συμπάϑεια (sym-patheia) – “provare emozioni con…”.
Insomma, ho fatto come mi pare a mio insindacabile giudizio, senza pensarci su.
Non mi sono preso troppo sul serio, anche perché sono pressoché sicuro che lo farete voi leggendo.

Ultime tre annotazioni:

  • ho valutato solo i concerti ai quali ho assistito per almeno trenta minuti;
  • ai concerti sul Light Stage non ho dato voti (sarebbero altrimenti stati tutti 10 per l’empatia, energia e l’amore ricevuti durante e dopo le esibizioni);
  • non sono un prof. stronzo, sono stato di manica abbastanza larga.

Yungblud: 9 
Un fenomeno.
Quelli come lui li riconosco immediatamente: nato per stare sul palco, si prende il pubblico in tre secondi e ci si fonde insieme senza mai un calo di energia.
L’adrenalina punk degli anni Duemila: mi sono divertito come un pazzo, mi sono inginocchiato in terra, ho saltato come una molla.
Ho cantato e battuto le mani insieme alle decine di migliaia di convenuti.
Ha legittimato le lettere maiuscole del suo logo. Le sue canzoni sono diventate la colonna sonora interiore del mio festival.
È stato fortunato: fosse nato quarant’anni fa sarebbe finito sotto elettroshock.
È stato anche sfortunato: fosse nato quarant’anni fa avremmo oggi il suo nome scolpito a lettere di marmo pregiato nel libro della storia del rock.
Ma ha ancora tempo (e vi raccomando i testi).

Foals: 8,5
Finché esisteranno band come i Foals non vorrò più sentire lamentele e piagnistei sulla morte del Rock (cose tipo «eeh, la musica di oggi fa schifo, un tempo era tutto meglio»).
Grandi suoni di chitarra, pieni e potenti, un frontman con il giusto carisma e una voce non canonicamente bella ma piena di personalità.
Tra math rock e funky, ti lasciano dentro gioia di vivere e sorridere.
Quarant’anni fa non era meglio la musica, eravate meglio voi.

Moderat: 8,5 
Sono di Berlino e basterebbe solo questo per aprir loro le porte del mio cuore.
La capitale tedesca è una mia seconda casa ma ho vissuto la clubbing culture di striscio.
Soltanto in un’occasione ho frequentato qualche club e partecipato ad un rave ma non ho mai avuto il piacere di un faccia a faccia con Sven Marquardt al Berghain: bene, ho capito ora che mi sono perso.
Con Bonobo mi sono sentito cellula pulsante di un organismo trascendente, con la band berlinese sono entrato direttamente nel cervello di quest’entità.
Se Giorgio Moroder – che guarda caso ha iniziato a Berlino Ovest la sua carriera – fosse nato oggi, sarebbe il quarto componente dei Moderat.

Bamba Wassoulou Groove: 8,5 
La musica come doping naturale per corpo e mente.
Il Sahara Occidentale – il Mali, per la precisione – dà sfoggio della sua potenza esorcistica.
Ballo per un’ora e mezza senza sentire la fatica.
Puoi ascoltare le chitarre afro per giorni senza stancarti e scoprire cose che ignoravi di te stesso: le lasci scorrere, l’energia il Ghibli viene da te e ti racconta storie antiche quanto la presenza dell’essere umano sul pianeta.
Una loro accompagnatrice che non resiste e sale sul palco per scatenarsi nella danza è un’immagine simbolo del mio Sziget 2023.

Macklemore: 8+
A cinque anni di distanza dalla sua ultima uscita, torna con un nuovo disco e un nuovo sé stesso.
Coinvolge con la sua rinnovata carica di positività dopo essere uscito per la seconda volta – e si spera la definitiva – dal tunnel delle dipendenze.
Si nutre di contatto e relazione con i fan.
A volte esagera nei siparietti ma è naturalmente estroverso e questi intermezzi non danno l’idea di essere costruiti.
Lo spettacolo è maestoso, a tutto tondo: black music, funky, rap e coreografie.
Forse un po’ breve.
Con un quarto d’ora di più sarebbe arrivato a 8,5.

Girl in Red: 8+
Giovanissima, esplosiva, empatica.
Brava musicista, belle canzoni, bei suoni.
Entra sul palco lanciata da una fionda, sorriso, braccia aperte.
Niente atteggiamenti da diva, niente filtri.
Si mostra per come è, si mette a nudo, racconta i suoi conflitti e i suoi percorsi a spirale interiori.
Come il suo quasi coetaneo Yungblud, affronta il tabù della malattia mentale.
Può solo crescere e mi aspetto molto da lei.
Il + è per la frase gridata alla sua ragazza dal palco – «I don’t wanna be your friend, I wanna be your bitch».
E poi suona anche la Fender Telecaster.

Florence + The Machine: 8 
Florence Welch è una divinità pagana.
Della luce, della notte, delle creature del bosco, di quelle dei mari, dei ruscelli, di quello che vi pare a voi.
In diretta connessione tra forze terrene e celesti, il suo concerto è una cerimonia di appartenenza tribale, una messa della Natura.
Possiede una forza magnetica che impedisce di staccare l’occhio dalle sue danze e dalle sue movenze.
E la musica della band costruisce la cattedrale di suono nella quale celebra il rito purificatore.
È stato il primo concerto nel mainstage ed ero messo in un punto a cazzo.
Me lo sono goduto ma a metà.
Per questo non prende 8,5.

Bonobo: 8 
Esplora ed espande al meglio le potenzialità della dance elettronica con un magistrale ed equilibrato lavoro di inserimento di fiati, chitarre e voci.
La ricchezza timbrica rende il suo live set un banchetto con portate di ogni tipo.
Sono al festival da poche ore e vivo nell’enorme tendone del Freedome Stage la prima reale esperienza di appartenenza alla comunità dello Sziget.
Sono intimamente connesso da un filo invisibile con la grande anima del festival e tutti coloro che ad essa partecipano.
L’epifania della prima notte.

Vinicio Capossela: 8
Il solito Maestro.
Raffinato quando vuole catturarti con l’eleganza e la soavità, diretto come un pugno al plesso solare quando vuole scuoterti dal tuo torpore e ti sbatte in faccia lo schifo della realtà dei nostri giorni.
Posseduto dai demoni della taranta quando decide che è ora di rivoltarti le viscere; accogliente e rassicurante quando si congeda da te con la preghiera laica d’amore di ‘Ovunque Proteggi‘.
Non sono mai stato una “bimba di Capossela”, ma non vuol dir nulla.
È un fuoriclasse, come sempre.

Mezzosangue: 8
Per me che non lo conoscevo è una delle sorprese.
Nel mondo dominano le playlist e lo skip delle tracce, ma lui se ne frega e continua a pubblicare concept album.
I suoi testi che meriterebbero un approfondimento a parte.
La contaminazione del rap con altri generi musicali è un suo marchio di fabbrica e ne eleva la cifra stilistica.
Qui a Budapest i suoni sono rock e la qualità dei musicisti che suonano con lui impreziosisce ulteriormente la performance.
Mezzo voto in più di Lazza per i testi, per il coraggio e per lo studio dietro ciò che porta sul palco.

Lazza: 7,5
Il ragazzo ci sa fare.
Ha i pezzi, ha personalità, ha carisma, padroneggia il palco del main stage e conosce la musica più di quanto si possa immaginare.
Se cantasse in inglese potrebbe tentare la carta internazionale.
Musicalmente vale lo stesso discorso fatto per Mezzosangue: venendo dalla trap, la sola differenza con il rapper romano è l’autotune, che mi piacerebbe eliminasse sui pezzi melodici piano e voce (anche perché ho idea che sappia cantare davvero).
Per questo motivo faccio il prof stronzo e gli do mezzo voto in meno.

Lorde: 7
Mi piace la sua voce, mi piacciono le melodie e il groove sotto di bassi ed elettronica mi fa tremare anche la ghiandola pineale.
Ma appare sul palco con quindici minuti di ritardo e io devo abbandonare il main stage con mezz’ora di anticipo per altri impegni.
Rientra per un soffio nel limite dei trenta minuti.
Di più non posso darle.
Di più non mi sento di aggiungere.

Jazzbois: 7+
Dovevano essere i Carson Coma la band ungherese prescelta per la mia esplorazione della musica indigena.
Impegni paralleli mi hanno portato, invece, dai Jazzbois che fanno tutt’altro genere.
Trio ungherese con aggiunta di sax, offrono una miscela di jazz, funky e low fi.
Rappresentano una boccata di ossigeno e di distensione in una giornata tiratissima.
Si ascoltano con piacere.
Le immagini sullo schermo dietro al palco sono bellissime.
Il synth analogico lo è ancora di più.

Mumford & Sons: 7
Fugano le voci di scioglimento che da qualche tempo giravano loro intorno.
Ma l’impressione che mi danno è quella di essere prevalentemente una one man band.
Il sound appare scollato, soprattutto nei brani più recenti.
Non convince la svolta di “Delta”, il pop non è nelle loro corde.
Me ne accorgo io e se ne accorge anche il pubblico che si distrae e aumenta il chiacchiericcio.
Fortissimi invece quando recuperano le loro radici.
Voto che è il risultato della media aritmetica tra i pezzi folk/rock (8,5) e le canzoni più pop (5,5).

Baby Queen: 7 
Barbie popstar.
Canzoni pop/punk, bolle di sapone grinta da vendere.
Sa stare sul palco ed è divertente da ascoltare anche per un vecchio come me.
La Telecaster rosa, prima di lei, l’avevo vista solo imbracciata da Syd Barrett.

Billie Eilish: 7
La sua fama la precede e non gioca a suo favore.
Ti aspetti come minimo una manifestazione di un’entita ultraterrena o extraterrestre che non avviene – e resti un po’ deluso.
Il talento è innegabile, il carisma anche.
Ma le canzoni sono un po’ troppo “lo-fi” per il mio gusto personale e la sua voce non rende pienamente in un live delle dimensioni mastodontiche. Passo la maggior parte del concerto a osservare il rapporto simbiotico e identificativo con i suoi fan, le reazioni di questi e ad appuntarmi considerazioni da vecchio trombone con una laurea in psicologia alle spalle.
Mi sembra comunque spontanea, molto più degli Imagine Dragons (vedi sotto).

Gio Evan: 5,5
Forse è stata una serata storta, ma se hai nei testi, nei calembour umoristici e nei giochi di parole un punto di forza, la voce si deve sentire e non essere coperta dagli strumenti.
Mezzo voto in più per la simpatia.

Imagine Dragons: non giudicabiliIl concerto perfetto, pensato in ogni minimo particolare per mandare in delirio persone di ogni sesso, età, provenienza.
Una sequenza ininterrotta di hit da classifica, suonate alla grande e arrangiate per sbaragliare ogni record di streaming, condivisioni e visualizzazioni. Uno spettacolo in cui tutto è programmato a tavolino, comprese le espressioni e i movimenti sul palco di Dan Reynolds.
E compreso il suo spogliarello che avviene al quarto pezzo, giusto il tempo di far uscire i fotografi dal pit.
Tutto questo fa la fortuna di Giulio, mio compagno di avventura, che li ha fotografati sei giorni prima al Circo Massimo di Roma: sa esattamente cosa farà il frontman californiano, sa dove piazzarsi nel pit e scatta la foto del decennio.
Ma i live sono altra cosa.
Sono immediatezza, spontaneità.
Sono soprattutto fuori programma ed errori.
Per questo l’assenza di voto non è un refuso. 

David Guetta: non visto
Con tutta la buona volontà ho scelto di appagare i bisogni al primo livello della scala di Maslow.
Lui è sicuramente sopravvissuto alla mia assenza.
Io gli ho dedicato una pasto a base di street food greco. 

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