Paolo Benvegnù, riabbracciare la musica italiana

È una parola che accarezza i cuori degli utopisti che ignorano la natura predatoria della specie Homo Sapiens.
Ispira creazioni artistiche e marce di protesta.
La più famosa della storia non fu proprio una marcia, ma una particolare forma di manifestazione dentro un letto di una stanza di un hotel di Amsterdam.
Nel suo nome c’è chi non esita ad entrare in guerra, altri pensano di cavarsela con una telefonata ad un fiorista.
Ho aperto il dizionario enciclopedico Treccani e ho trovato:

Condizione di normalità di rapporti, di assenza di guerre e conflitti, sia all’interno di un popolo, di uno stato, di gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi. Buon accordo, armonia, concordia di intenti tra due o più persone, nei rapporti privati o anche nella vita sociale. Condizione di tranquillità materiale, di riposo, di quiete. Stato di tranquillità e serenità spirituale, non turbata da timori, affanni o passioni.

Ora, io non pretendo di saperne e non mi lancio in definizioni, ma dopo essere stato spedito a un live di Coez e Frah Quintale e dopo essere stato esposto a un festival di Sanremo come quello andato in onda due settimane orsono, voglio solo una cosa: fare la pace con la musica italiana.


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LIVE REPORT CONCERTO | ROMA 2024

La difficile opera di diplomazia è affidata a Paolo Benvegnù.
Ci arrivo nelle migliori condizioni, dopo una giornata conviviale accompagnata da polenta tradizionale (45 minuti a girarla con mestolo di legno), salsicce, spuntature di maiale e tre bottiglie (in quattro però) di Valpolicella. Pranzo padano e atmosfera padana nella sala concerti del Monk, con nebbiolina da macchina da fumo sul palco, che da sempre rende felici i fotografi.
Uno di loro, il solito e insostituibile, fa invece felice me, scattando e inviandomi la foto del foglio con la scaletta posto in corrispondenza della postazione del chitarrista.
Accade mentre ammiro Strato e Telecaster sui reggichitarra, opere d’arte in un museo sospese a mezz’aria in attesa di prender vita.

21.55, Vanni Bartolini, responsabile dei suoni di sala, comunica a una responsabile che alle 22.01 manderà l’intro del concerto: sarà il segnale per la band nel backstage e per chi indugia in chiacchiere fuori dalla sala.
Si avvicina una fan e gli chiede il foglio con la scaletta.
Se la ho nella memoria dello smartphone, lui la ha nella memoria e basta: niente foglietto sul mixer, ma la delusione della fan dura poco.
Recupera una foto con l’elenco dei pezzi suonati nella serata e permette alla ragazza di fotografarla a sua volta.
Piccole istantanee dell’attesa.
Adoro vivermi il prima dei concerti, per questo arrivo con anticipi leggendari.
Per questo scrivo delle intro lunghissime.
Quella del concerto di stasera è di archi, sale di volume, poi sfuma.
È il momento di Paolo Benvegnù sul palco, è il momento di rappacificarsi con la musica italiana.
Spero e confido che possa accadere.

La band innanzi tutto: Gabriele Berioli alla chitarra, Daniele Berioli, il cugino, alla batteria, Tazio Aprile alle tastiere e piano, Saverio Zacchei al trombone e il fedelissimo Luca Baldini al basso e ai cori. Il pubblico subito dopo: saranno a occhio 400 persone: per una serata in cui la Roma si gioca il passaggio del turno in Europa League, non sono da buttare via.
La struttura del concerto a chiudere: due parti distinte, la prima con i dodici pezzi estratti da “È Inutile Parlare d’Amore”, l’ultima sua fatica uscita su etichetta Woodworm non più tardi di un mese fa. Cominciamo da qui.

Il primo pezzo è lo stesso di apertura del disco: ‘Tecnica e Simbolica’. Il suono avvolge, imponente, anche se da equilibrare un po’. La batteria non esce quanto dovrebbe e il trombone sparisce un po’ mentre duetta con la Telecaster. Voce piena e svettante, testo scolpito nella pietra: “hai venduto il talento per sentirti importante. La gente è cattiva si innamora per niente. Si innamora di un altro”. Non ci è dato sapere della presenza di specifici riferimenti a qualcuno o qualcosa. Io nella mia testa creo i miei mentre colgo una citazione del Battiato di Povera Patria. A seguire ‘L’Oceano’, brano che nell’album è cantato insieme a Brunori Sas.  Forse tra i pezzi più melodici, qui è presenza e calore. Con ‘Marlene Dietrich’, la musica si illanguidisce e si fa carezza. I suoni di synth e tastiere sono protagonisti prima di sparire in uno stop in cui resta la sua voce, appena sostenuta da punteggiature di chitarra.

Paolo Benvegnù

L’attacco della voce su ‘Il Nostro Amore Indifferente’ è venato di disperazione e solitudine. Non so se a essere particolare sia la serata o la canzone. Nel modo di cantare la strofa, di respirare, nelle sfumature, nella timbrica, mi arriva l’anima e la stessa voragine interiore che permeava e dava vita alla vocalità di Piero Ciampi. Un impercettibile e disperato tremore che fa rabbrividire anche me.
Ah, quasi mi dimentico di dirvi che il suono di batteria si è ben equilibrato.

Concede poco, anzi nulla alle chiacchiere e all’interazione con il pubblico. La sequenza delle canzoni va avanti ininterrotta e fluida.
‘27/12’
si regge su atmosfere sonore sospese, nelle quali il trombone dà il meglio di sé. Non predomina, ma crea un tappeto e aggiunge tessiture su tessiture, raffinatezza, nuances pastello. Finisce in sospeso e poi attacca ‘Our Love Song’. Pezzo che parte  oscuro, voce passata in riverberi e delay, chitarra ossessiva che tiene un riff sulle corde basse. Poi improvvisamente esplode, per chiudere con la cassa dritta e la chitarra a suonare ritmiche in sedicesimi sotto.
Non sono i Subsonica, ma il mondo dei suoni è un po’ quello.

Da pezzo più tirato al pezzo più… “sanremese”. ‘Pescatori di Perle’, con la sua intro di piano e voce, sarebbe una perfetta canzone per il Festival dei Fiori, semmai dovessero ripensarci e accogliere di nuovo la grande musica d’autore, mentre con ’Canzoni Brutte’ l’autoironia la fa da padrona e l’energia torna verso l’alto. ‘In Der Nicht Sein’ le rarefazioni iniziali acquistano via via corpo e spessore con l’incalzare di batteria e di basso, i cui giri danno sapori di wave italiana che fu. A completare il quadro anni Ottanta, la voce richiama il Piero Pelù delle origini. Ciliegina sulla torta: la chitarra alla Steven Wilson sui ritornelli.

‘L’Origine del Mondo’ mi prende direttamente alla pancia, mi lascio andare e non ci penso più. Viscere-carne-sangue-sudore-centrifuga: scordatevi qualsiasi analisi musicale, la testa (e non solo) va a una donna di un recente passato e a com’era il sesso con lei. Fatevelo bastare e passiamo a ‘Libero’, grazie alla quale entriamo nei territori del folk, con l’arpeggio di chitarra acustica anni Settanta.
Un interessante e romantico duetto tra trombone e voce suggella l’abbraccio romantico di una coppia accanto a me ed è il preludio alla fine della prima parte. A chiuderla ci pensa ‘Alla Disobbedienza’, canzone di chiusura anche del disco. Un fraseggio del synth sostiene l’intro della sola voce. Fanno nuovamente capolino sonorità anni Ottanta nella strofa che sfoga in un crescendo, sempre con cassa e basso dritti all’unisono sui quarti. La chitarra ricama arpeggi con delay ed effetti di modulazione, poi si distorce sulla chiusura che si fa oscura e sfuma nell’outro di archi lanciati dal Mixer a chiudere la circolarità.

La pausa dura poco. Nella seconda parte lo spazio è riempito dai pezzi più datati, per la gioia dei fan che possono abbandonarsi al canto. A differenza della solennità della prima ora di show, l’informalità regna sovrana. L’artista si diverte a ironizzare, a modo suo, sulle nuove star della musica italiana e si intrattiene in intermezzi colloquiali con i presenti. L’atmosfera si fa confidenziale, rilassata, divertita. Il passato si fa presente con ‘La Schiena’, estratta da “Le Labbra” (2008), in cui le sonorità sono più jazz rispetto ai pezzi precedenti. Il trombone strillato e distorto. Meno canzone tradizionale e più rabbia nella voce, caos rumoristico e strumenti più anarchici e liberi di spaziare e improvvisare.

Piccolo salto in avanti di tre anni e si arriva ad “Hermann” (2011) dal quale estrae ed esegue ‘Andromeda Maria’, ballad in sei ottavi in cui tornano i suoni e le reminiscenze new wave. La canzone si muove in uno spazio rarefatto, introspettivo e umbratile che lascia ad ognuno tempo e possibilità di respirare a fondo e ascoltare in silenzio seguendo la propria pulsazione interna. Un’altra brusca variazione di registro la si ha con ‘Avanzate Ascoltate’, cantata a gran voce dal pubblico. Arriva in pieno cuore la solennità del testo e io mi accorgo di quanto bene si siano sentiti voce e testi stasera.

La band si permette di rischiare e divagare di più. Con ogni probabilità i pezzi, più rodati ed equilibrati, permettono di aprire più a improvvisazioni. ‘Il Mare Verticale’ è il Benvegnù degli esordi di “Piccoli Fragilissimi Film” (2004). Lirico, intenso sofferto al cuore. Inserti dissonanti aprono altri spazi all’improvvisazione. A seguire, ‘Io e il Mio Amore’, inserita nell’album compilation “Il Paese è Reale” del 2009 curato dagli Afterhours. Mi giro e accanto a me sorprendo una ragazza a fare un video con il suo telefonino.
Sguardo rapito, batte le mani, canta a tutta voce il ritornello. La guardo meglio una seconda volta: è Elli Schlein. Pensatela come vi pare, ma a gusti musicali abbiamo visto di peggio sulla scena politica italiana.

Si va verso la fine.
Seguo la scaletta e mi accorgo che è rimasta una sola canzone. L’artista preannuncia il saluto: “Normalmente i concerti si chiudono con la hit più celebre. Ma noi siamo fottuti non abbiamo pezzi di successo. Quindi non abbiamo l’ultimo pezzo da fare”. Infatti, di pezzi ne fanno due. ‘Cerchi nell’Acqua’, al quale si aggiunge un pezzo bonus originariamente non segnato sulla scaletta: ‘È Solo Un Sogno’. I brani sono cantati a cuore aperto e a tutta voce insieme ai fan.
Era il mio sogno prima di questo concerto, ora diventato realtà: pace fatta con la musica italiana.
Sarò sempre grato a Paolo Benvegnù.

Ho assistito al concerto attaccato alla transenna che delimita lo spazio del mixer di sala.
E mi complimento con il fonico Vanni Bartolini, per come ha saputo far uscir bene i suoni e la voce. Vanni ascolta e lavora con band post-punk e alternative, generi in cui la voce tende a essere messa allo stesso livello degli altri strumenti.
Proprio per questo accetta con piacere il riconoscimento che gli faccio.
Mi piace rispettare e riconoscere il lavoro sotterraneo di chi permette allo show di aver luogo e di regalare emozioni: ricordate che il merito di un concerto eccellente è in buona parte ascrivibile a chi non vedete mai sul palco.
Per questo decido di citarlo sia in apertura che in chiusura del racconto.

«Sei come Forrest Gump», mi scrive un’amica quando le dico di avere avuto la leader del principale partito di opposizione a un metro di distanza.
Non sono accarezzato da piume fluttuanti, non ho salvato tenenti in Vietnam, o diventato miliardario grazie ai gamberetti. Ma è bene che cominci a correre.
Mi aspettano sulla circonvallazione Trionfale, dall’altra parte della città, per una cacio e pepe dell’una di notte.
C’è da festeggiare. Tornate all’inizio del pezzo e andate a ripescare la concomitanza del concerto.
Riabbraccio la grande musica italiana e la Roma che vince ai calci di rigore.
Stasera la vita è una scatola di cioccolatini.

Roma, 22 febbraio 2024

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© Giulio Paravani

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