Damien McFly: folk italiano dal respiro internazionale

A qualche settimana dal termine dell’Home Festival di Treviso, ritroviamo un volto a noi già noto.
Si tratta di Damiano Ferrari, meglio conosciuto come Damien McFly, cantautore padovano e presenza che non passa inosservata nel panorama emergente del momento.
Dopo un esordio caratterizzato da quattro cover collection di brani contemporanei in chiave folk-pop, l’artista ha auto-prodotto e pubblicato nel 2015 il primo album di inediti, “Parallel Mirrors”.
Dal 2014 ad oggi conta circa 400 concerti in Italia, in Europa e negli Stati Uniti.
‘New Start’’, il primo singolo, è stato trasmesso dalle radio in diversi Paesi e inserito all’interno della rubrica Just Discovered di MTV New Generation.

Lo stile è folk, al confine tra i suoni popolari e quelli sperimentali.
Non è il primo a tentare la reinterpretazione del genere, strada che rischia di farsi stretta per chi ricerca l’originalità. Nell’era dei talent show e dei social media, utilizzati quale metro di giudizio per posizionare l’asticella del talento, Damien McFly è alla ricerca di una personalità univoca, oggi non del tutto definita, ma di sicuro in evoluzione.

Io credo nella vera gavetta, nel fatto che un artista deve emergere suonando e non grazie ad uno schema prefissato da qualcun altro. Il talent può essere giusto per un ragazzo molto giovane, che magari non sa ancora come funziona il mondo della musica e ha bisogno di un supporto per avere visibilità.
Credo che la cosa migliore sia imparare a conoscere se stessi suonando, andando in giro per il mondo e confrontandosi con la gente. Purtroppo sono in molti ad avere ancora una concezione sbagliata del viaggiare: sembra sempre che costi tantissimo, ma in realtà costa meno raggiungere Parigi in aereo che andare a Roma in treno. Il mio consiglio è suonare e viaggiare.

In bilico tra l’amore per la propria terra e il desiderio di essere cittadino del mondo intero, McFly insegue un sound che possa essere assorbito, vestito di emozioni e di avventure.
Ha chiare le idee nelle scelte stilistiche e nella cura appassionata di tutto ciò sta nello spazio tra la lui, la musica e il pubblico.
Damien McFly

Come artista, hai scelto una via piuttosto impegnativa: non sei passato per i talent e sei moderato anche nell’uso dei social.
Pare tu abbia puntato tutto sulla musica e sul contatto con il pubblico: come mai questa scelta?

In realtà io sono partito proprio con Youtube, non come youtuber ma postando molti video.
Il percorso che ho intrapreso mi ha portato a costruire nel tempo un sound personale e una fan base internazionale. Poi è arrivata la decisione di scrivere un album, auto-prodotto e pubblicato a distanza di due anni.
Riguardo ai talent, penso non possano dare un valore aggiunto alla carriera che vorrei.
Non credo che diventare un prodotto costruito sia utile, soprattutto per un artista del genere folk.
Il folk viene dalla gente, dalle città che visiti, dalle persone che incontri, dal suonare costantemente e non dal sedersi a tavolino a costruire brani per fare soldi.

Hai provato, infatti, l’esperienza di suonare per le strade delle grandi città europee.
Come è stato?

Bellissimo! A Dublino ha iniziato a piovere praticamente subito, abbiamo vissuto venti minuti di paura ma poi è andata bene. A Venezia, che è una città molto visitata, siamo stati accolti da un pubblico misto: si fermavano i Veneziani ma anche molti turisti. Nel resto dell’Europa le cose sono un po’ diverse rispetto all’Italia: per esempio, in Italia non puoi utilizzare gli amplificatori, mentre a Dublino puoi farlo entro un certo limite di decibel. Inoltre in Italia puoi esibirti entro un limite di tempo, come se l’esibizione fosse causa di fastidi, quando invece basterebbe stabilire delle regole valide.

Spesso vieni accostato ai Mumford & Sons.
È un paragone che a lungo  andare forse rischia di stare un po’ stretto. Tu come lo vivi?

In Italia forse va ancora bene.
È brutto quando ti senti rifiutare da grandi radio internazionali perché «sei troppo simile ai Mumford and Sons». Devo dire però che ero conscio di questo aspetto.
Per esempio, il brano ‘Reflection’ ha un sound molto simile a quello della band, anche se gli strumenti utilizzati sono diversi. È servito a partire, vedremo cosa succederà in futuro.

C’è molto lavoro nel tuo progetto: tutto è curato nel dettaglio, dal suono alle immagini, alla comunicazione. Te ne occupi da solo o c’è qualcuno con cui ti confronti/collabori?

Per lo più sono da solo.
Dei suoni mi sono sempre occupato personalmente, così come della la parte grafica e dei video.
Ho comprato una reflex e da poco ho cambiato l’attrezzatura video.
Ci sono persone che mi danno una mano a filmare, che mi danno qualche spunto e da parte dei componenti della band c’è sempre molto supporto.
Di solito si trova un accordo, ma in ogni caso, anche a malincuore l’ultima parola è la mia.

Damien McFly

Cosa ti ha dato la spinta per pubblicare il tuo primo album di inediti e che emozioni hai provato?

A livello di tempistica, è stato solo un non poterne più di suonare esclusivamente cover.
Ad un certo punto avevo iniziato a produrre pezzi miei e proponendoli durante i live ricevevo un buon riscontro. Quando poi mi sono reso conto che il pubblico stava imparando i miei testi, ho capito che era arrivato il momento di dare una spinta.
Ho scritto gli ultimi tre pezzi e ad ottobre 2015 è uscito l’album ‘Parallel Mirrors’.

Hai spostato l’attrezzatura in lungo e in largo alla ricerca del suono perfetto. L’album è stato registrato all’interno di ville antiche, teatri… qual è stato il suono più difficile da trovare? c’è qualcosa che hai dovuto riadattare?

C’è stato un pezzo, ‘Release Me’, che abbiamo registrato all’interno di un capannone adibito a magazzino dello studio di registrazione. Quando sei fonico (ndr. Damiano è diplomato al conservatorio in tecnica del suono) non sei mai del tutto contento ed io quando ascolto quel brano sento sempre qualcosa che non va, non riesco mai ad ascoltarlo tutto, non sono soddisfatto. Di sicuro registrare in ambienti diversi dallo studio rende il pezzo più vivo, magari non commerciale, meno radiofonico, ma vivo. Una scelta sostenuta anche da altri artisti, come i Lumineers, che registrano i pezzi a casa e usano riverberi, ambienti enormi che caratterizzano il sound.

È passato quasi un anno da “Parallel Mirrors”, qual è il bilancio?

L’album si è rivelato una grande soddisfazione. La scelta di proporre brani in inglese mi ha dato un buon riscontro anche da parte del pubblico estero. Per esempio, ho avuto la fortuna di essere intervistato e di suonare in BBC Scotland: è una di quelle occasioni in cui capisci che stai percorrendo la strada giusta.

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Qual è, se c’è, il brano da cui oggi ti senti più distante e quello a cui invece ti senti più vicino?

Dal punto di vista del sound ti direi che il brano più distante è ‘Don’t Steal My Wish’.
È il pezzo più folk dell’album, di uno stile quasi balcanico.
Ha molta fisarmonica e all’inizio mi piaceva, ma credo sia molto distante da ciò che sto ricercando adesso. Invece, sento ancora molto vicino ‘I’m Not Leaving’, brano dove io e la band abbiamo sperimentato suoni e riverberi nuovi, specialmente nell’uso dei mandolini.
Anche dal punto di vista dei contenuti rimane attuale.
L’ho scritto per i miei genitori nel momento in cui ho lasciato la loro casa e sono partito per il tour. Quando all’estero parlo della mia esperienza, di solito mi guardano come se non avessi fatto niente di speciale, ma chi vive in questo Paese sa che lasciare la casa dei propri genitori a 27 anni non è semplice. Quel pezzo lo sento ancora mio.

Sogni un posto o un’occasione particolare in cui vorresti suonare in futuro?

Il Festival di Glastonbury, poi mi piacerebbe intraprendere un altro tour negli Stati Uniti.
Quando ci sono stato la prima volta avevo a scritto solo pochi pezzi, adesso mi piacerebbe tornarci con il resto della band e con più brani miei.
Sono contento di come è andato il tour e di come le persone si sono appassionate alla mia musica, ma avrei voluto partecipare a più festival. In questo momento ho diversi manager sparsi per il mondo e mi aiutano molto, ma sono consapevole di non aver ancora raggiunto quello che vorrei.
Vedremo come andrà per il prossimo disco, siamo già a lavoro.

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