Sanremo 2017, la terza serata: una cover ci seppellirà

La terza serata del Festival di Sanremo è dedicata alle cover, ed è l’anticamera della finale. 
Prima però delle rivisitazioni dei BIG ci sono i giovani: i quattro in gara nella seconda serata sono tutti potenziali finalisti, la seconda batteria infatti è superiore alla prima.
La spuntano due napoletani, Maldestro e Lele, di provenienza molto diversa (il primo dal teatro e dalla gavetta classica, il secondo figlio dei talent).
Anche gli esclusi però si faranno sentire, Tommaso Pini con la carta ruffiana sull’ansia e Valeria Farinacci con un brano dello “sfornasingoli” Anastasi avranno il loro spazio  in radio, che poi è quello che gli interessa di più.

Pronti, via. 

Chiara Galiazzo porta ‘Diamante‘ di Zucchero, che per quanto mi riguarda se l’avesse cantata alla serata karaoke del giovedì alla pizzeria sotto casa mia avrebbe risparmiato la strada, la benzina e avrebbe guadagnato pure una consumazione. Niente di speciale.

Ermal Meta invece scava un po’ più indietro nella tradizione italiana andando a pescare nel repertorio di Domenico Modugno, e l’esperimento riesce con ‘Amara terra mia‘.
L’interpretazione con i suoi passaggi in falsetto è degna di nota e ruba l’attenzione del pubblico creando silenzio in sala – in alcuni passaggi forse chiede troppo alla sua ugola, ma ha avuto coraggio e personalità nella scelta.

Lodovica Comello come Ermal Meta pesca negli anni ’70 con uno dei classici di Mina, scelta ruffiana e al contempo rischiosa, ma lei riesce… a trasportarci al Disney Club.
La versione di uno dei cavalli di battaglia di Mina (‘Le mille bolle blu‘) infatti sembra di plastica, levigata, adattissima a fare da sigla ad un programma pomeridiano per teenager, che forse è proprio il target della Comello.

Con Al Bano si entra in un vortice tipo l’Inception delle cover.
Il più intonato tra i produttori di vini italici infatti si cimenta nella cover di ‘Stand by me‘, al secolo ‘Pregherò‘ di Adriano Celentano
È tutto un equilibrio sopra la follia dei suoi acuti, che riesce ad infilare anche qui.
Il pubblico è dalla sua parte, ma non so se questo per la musica sia un bene.

Arriva Fiorella Mannoia e piazza la zampata, con la cover di Francesco De Gregori di ‘Sempre e per sempre‘ sembra disegnare il testo con la sua prossemica, con l’interpretazione e, a tratti, la spocchia di chi ne sa.
E giustamente mi viene da dire.

Alessio Bernabei è un caso palese di accanimento terapeutico.
Era perfetto nel ruolo di Ligabue dei poveri, col suo rock che non graffia, insieme ai Dear Jack, ma la sua spinta propulsiva si è esaurita come la nostra pazienza di ascoltare questo ex fenomeno generazionale, e forse pure quelli della sua generazione sono passati a quello successivo, cambiando canale sulla violenza che Alessio perpetrava sull’inerme Bennato.

A rimarcare la differenza tra un artista e un cantante conosciuto arriva Paola Turci che che riprende uno dei classici sanremesi per eccellenza, ‘Un’emozione da poco‘, ma mica tanto poco.
Il Teatro Ariston la nostra Paola lo rivolta a suo piacimento, poco da dire, e forse siamo pure di parte (ma provate a darci torto).

Per la legge dei grandi numeri l’onda verde non poteva durare molto, e infatti ecco Gigi D’Alessio che riprende ‘L’immensità‘ di Don Backy.
Se fare una cover vuol dire personalizzare una canzone di un altro artista, D’Alessio fa una cover, che poi ciò a molti non piaccia è altro. C’è anche un passaggio al pianoforte che fa vedere quale sia il vero asso nella manica di Gigi nostro. Ma non indugiamo, andiamo oltre, per fortuna o purtroppo.

Sale sul palco Francesco Gabbani ed è subito “animatori dei villaggi di tutto il mondo unitevi” con la cover di ‘Susanna‘ del molleggiato.
Secondo brano scelto dal suo repertorio, se non contiamo che anche Don Backy era del clan, allora saremmo a tre. Gabbani tiene bene il palco e porta a casa una versione piaciona che gli assomiglia molto: in quel che fa è bravo, a prescindere da quanto possa piacere.

Marco Masini in onore della sua amicizia col compianto Giorgio Faletti riporta a Sanremo ‘Minchia signor tenente‘ pezzo che all’epoca delle stragi di mafia ebbe un grosso impatto al Festival.
Il risultato è un Masini che si emidioclementizza, sembra quasi di vederlo il suo nuovo progetto “Masini Volume”. La canzone viene portata a casa con dignità e arricchita da una intro personale.

Se l’espressione “senza infamia e senza lode” avesse un plastico in una puntata di “Porta a Porta” di Bruno Vespa quel plastico sarebbe Michele Zarrillo.
La sua cover di ‘Se tu non torni‘ di Miguel Bosè è carina, ma non so se ciò rappresenta un complimento.
La vetrina sanremese farà ciò che deve per Zarrillo, gli darà più serate per andare in giro, ma non è certo lui il mattatore di questa edizione.

Elodie sceglie uno dei grandi capolavori di Riccardo Cocciante, una canzone in crescendo che l’ex amica di Maria porta a casa in modo discreto, la canta bene. Si emoziona ed emoziona il pubblico nell’interpretare ‘Quando finisce un amore‘.
Quando la scelta della canzone è fatta bene il risultato è sempre positivo.

Samuel cala un vero e proprio asso.
Ho difeso il mio amore‘ valorizza la sua voce, strumento che padroneggia a dovere, e si prende finalmente il palco in una veste nuova: si avventura fino alle prime file del pubblico, canta e passeggia con sicurezza, la stessa sicurezza che restituisce la sua cover, una prova di maturità senza voler ostentare nulla.
Tutta l’esperienza di anni in giro portata dentro una nuova avventure e, forse, una nuova vita artistica.

Fino ad ora tutto nella norma, nulla lasciava presagire un momento di imbarazzo pari solo a quella volta in cui a “Telemike” il mitico Mike Buongiorno beccò quella concorrente che imbrogliava.
Sergio Sylvestre e i Soul System si giocano il jolly con ‘Vorrei la pelle nera‘.
Sembra un assist a porta vuota fino a che i nostri eroi non cominciano ad andare paurosamente fuori tempo, roba che anche gli sconfitti da Chiara al karaoke del giovedì in pizzeria avrebbero fatto di meglio.
L’eccezione che conferma la storia che i neri hanno il ritmo nel sangue.
Alla fine si dirà che c’è stato un problema tecnico, ma tant’è, è stato un momento da dimenticare.

Fabrizio Moro che imita Vasco che canta De Gregori che al mercato mio padre comprò.
La cover de ‘La leva calcistica del ’68‘ finisce addirittura in cacciare con un lalalalala che credo sia la cosa più lontana dallo spirito di una canzone del genere.
Ecco che una scelta sbagliata della canzone rende tutto bruttissimo.
Fabrizio Moro ha un suo stile, lo applica indistintamente a ciò che canta, rendendo tutto molto simile, credo che questo sia un limita più che un tratto distintivo.
E poi pare sempre che abbia passato qualche guaio.

Le cover terminano con Michele Bravi che reinterpreta ‘La stagione dell’amore‘ di Battiato, anche se nessuno se ne accorge davvero.
Tanto che viene da pensare se nel bene o nel male questo palco sia per tutti, perché alcuni lì su sembrano scomparire.
La cover scivola su quel senso di autocitazione, come a voler riprendere il tema dell’inedito e ciò ha un senso. Insomma la stagione dell’amore è bella ma non ci vivrei.

Il podio delle cover vede Emidio Masini, ehm, “Minchia signor tenente” al terzo posto, seconda Paola Turci e vincitore Ermal Meta, e forse va bene anche così.
Porta a vincere una canzone che parla di emigrazione, che è un po’ un messaggio a tutti.
A lui stesso, a noi, e a chi non vuol sentirne parlare.

Degli posti stranieri preferirei non parlare, forse li invitano solo per farci capire quanto siano scarsi quelli in gara. Mika fa in tempo a trovare Adinolfi prima di lanciarsi nella cover di ‘Jesus to a child‘ di George Michael che divide letteralmente i suoi fan.
LP si lancia in una gara di fischi con Carlo Conti ma è davvero una cantautrice di spessore, i suoi acuti mi hanno rigato il monitor del pc.

La gara ad eliminazione decreta l’uscita delle coppie create ad Hoc: Nesli ed Alice Paba e Raige e Giulia Luzi.
Ce ne faremo una ragione, anzi non ci siamo nemmeno mai posti il problema a dire la verità.

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