Wavves – V


A giudicare dall’impegno messo nella scelta del titolo, si direbbe che gli Wavves sono un po’ a corto di fantasia. Il quinto album in studio della loro carriera si chiama semplicemente “V”V come il numero ordinale ma anche come lettera estremamente ricorrente per la band di San Diego, basti pensare che solamente nel nome Wavves questo monogramma compare sostanzialmente quattro volte.

C’è veramente carenza di idee nella testa di Nathan Williams? D’altronde il ragazzo è sempre estremamente impegnato nei suoi progetti paralleli, nelle numerose collaborazioni, nelle storie d’amore sotto i riflettori, il tutto spesso confusamente mischiato e sovrapposto. Eppure “V” è un disco dal taglio ben definito, assolutamente omogeneo e che suona subito discontinuo se paragonato alle precedenti fatiche degli Wavves. Il suono è immediato e facilmente masticabile sin dal primo ascolto, la dichiarazione d’intenti del disco tra le righe sembra essere di risultare accattivante e arrivare a un pubblico non troppo esigente, affrontando il rischio di scontentare una parte dei seguaci storici in favore di una resa più universale. Elementi di continuità comunque ce ne sono, abbiamo un disco dalla durata stringata, poco più di mezz’ora, una sequenza di brani brevi dal ritmo sempre alto e dall’incedere frenetico. Uno di quegli album che se inizi ad ascoltarlo, lo finisci per forza di cose perché non può stancare, una questione di costituzione proprio.

La rottura è nello stile musicale. Il nome Wavves è da sempre associato al concetto di lo-fi, un indie rock dalla struttura trasandata e poco lineare, che suona sporco ed è quanto di meno virtuoso si possa concepire senza sconfinare nel rumore. Tutto questo per “V” ce lo possiamo scordare. Chitarra e batteria sono lineari e diritte, il tiro è quello di un classico pop-punk degli ultimi quindici anni, tipicamente americano, restano alcune divagazioni e sfumature del suono in stile surf rock che salvaguardano l’identità e la particolarità del lavoro.

Heavy metal detox‘ è una buona apertura andante ma non aggressiva, il primo singolo ‘Way too much‘ è accattivante e ruffiano con un giro di chitarra tanto semplice quanto azzeccato. Si respira la California quando si arriva a ‘My head hurts‘, l’immediatezza con cui ti coinvolge maschera bene la struttura ricercata, facendo sì che questo pezzo rimanga in testa e in loop. La stessa sorte tocca a ‘Heart attack‘, momento di stacco con ritmo blando, toni più bassi e fedeltà ridotta, garanzia di ipnosi in piena Wavves-wave. Altro brano ben fatto sebbene non brilli per originalità è ‘Tarantula‘, sorretto da una buona traccia vocale, per poi chiudere facendo un gran baccano/con la chitarra in mano sulle note accavallate di ‘Cry baby‘.

Traccia bonus per questa recensione, ripresa dall’edizione australiana del disco, la morbida, dolce e malinconica ‘Fast ice‘ dei Spirit Club, progetto parallelo di Nathan Williams con cui ha pubblicato il disco di esordio nella primavera del 2015. Un momento di gradevole decompressione, una ballata in appendice per riprendere fiato.

Qualcuno storcerà il naso, qualcuno si avvicinerà agli Wavves ignorandone il passato e continuando volentieri a farlo. “V” è un esercizio semplice, o quantomeno non elaborato come gli album precedenti, ma è indubbiamente ben confezionato ed è tutt’altro che ostico all’ascolto. Non segnerà di certo una generazione, ma regala momenti piacevoli di ascolto disimpegnato.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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