a cura di Francesca Marini

Per i Polar Bear si tratta del quinto album.
Il quinto esperimento in cui il gruppo si diverte a trascendere ogni genere musicale, mischiando il jazz con sonorità elettroniche aliene. Con questo gruppo di Londra la musica raggiunge un’altra dimensione, al di là di qualsiasi definizione.

La musica dei Polar Bear proviene da un altro pianeta.
A giudicare già da Open See, traccia d’apertura del disco, sembra di essere sospesi nel vuoto cosmico a qualche milione di anni luce di distanza dalla Terra: un brano puramente elettronico, sullo shoegaze, frammentato dal sax echeggiante generato forse dal vuoto stesso in cui siamo immersi.
In Each and Every One degenera poi in connubi perfetti tra free jazz, elettronica e swing come Be Free e Chotpot, in cui sembra di stare ad ascoltare una collaborazione strana ed ambigua tra Benny Goodman e Howie B, il tutto decorato con atmosfere degne di qualche film di fantascienza.
Una sorta di electroswing del futuro che probabilmente sarà ballato nel prossimo millennio.
Il disco tocca anche momenti a metà tra noise ed acid jazz come WW, il caos strumentale allo stato puro in cui i sassofoni impazziscono in balia di qualche tempesta spaziale, e momenti fortemente psichedelici come Lost in Death Part 2, probabile nuovo manifesto del nujazz.
Un racconto di Asimov messo in musica.
Un noir ambientato su Marte.
In Each and Every One è il punto di incontro tra un tradizionale quartetto jazz a due sax e il sintetizzatore.

I Polar Bear sono tornati e hanno ricominciato da dove si erano fermati, puntando tutto sulla fantasia e sulla trasformazione del concetto stesso di musica. Il jazz che assume una nuova forma.
L’incontro perfetto tra gli anni ’50 e ’60 e il 3000.
Sperimentale, interessante ed intrigante al massimo.
Il futuro del jazz.