DIIV – Is The Is Are


Non mi sono mai fermato a giudicare le persone (e gli artisti) dalle droghe che utilizzano, sebbene la mamma mi abbia sempre insegnato a diffidare da chiunque sia dipendente da sostanze stupefacenti – se avessi fatto così, ad esempio, mi sarei perso Zachary Cole Smith, il leader e il frontman dei DIIV.
Ricordo di averlo visto per la prima volta nel 2012 in una puntata del David Letterman Show.
Mi chiesi da dove uscisse fuori questo ragazzino biondiccio dalle movenze ossessive, cobainiane (scusami, Kurt).
Salvo poi scoprire di avergli attribuito molti meno anni di quanti in realtà ne avesse – Zachary è uno che, pur viaggiando sulla trentina, ha vissuto già innumerevoli vite e il secondo album dei DIIV, “Is The Is Are“, lo testimonia: diciassette tracce condensate in poco più di un’ora dimostrano l’urgenza di dire qualcosa, di avere un mondo dentro da tirar fuori.
La compattezza dell’album tradisce una lunga gestazione: dal precedente “Oshin” sono trascorsi quattro anni e Zachary sembra quasi ricordarcelo in ‘Take Your Time’: «Take your time […]/ it works if you work it out, to clean out your mind, and take your time».
L’uscita dell’ultima fatica dell’artista newyorkese era stata anticipata, lo scorso ottobre, dal singolo ‘Dopamine’, che ho ritenuto subito potesse porsi in sostanziale continuità con “Oshin”: il testo passa in secondo piano “sommerso”, per così dire, dal riverbero o dalla chitarra di Zachary.
A suo dire, “Is This Is Are” si pone su un piano totalmente altro dal precedente lavoro: qui le canzoni sono un mero esercizio con vocazione alla narrazione di eventi: il già citato abuso di sostanze, l’incontro con la compagna Sky Ferreira, le vicende extra-musicali.
Non me ne voglia Zachary, ma in un mondo fatto di specchi e finzioni, non sono portato più di tanto a credergli – “Is This Is Are” è un album sulla falsariga del precedente, perché i DIIV sanno come essere ammiccanti e non avrebbe avuto senso cambiare: si è già menzionata ‘Dopamine’, e un discorso similare si potrebbe fare di ‘Out Of Mind’ o di ‘Yr Not Far’. Apprezzabile il cantato sensuale di Sky Ferreira in ‘Blue Boredom’ e il pezzo che chiude l’album, ‘Waste Of Breath’, che mi pare l’unico elemento realmente di spicco (con rimando d’obbligo agli Slowdive) in un lavoro che probabilmente si fa apprezzare più in una visione d’insieme che non nella considerazione delle singole parti.
Gli elementi più significativi di “Oshin” non vanno perduti: l’attitudine è spregiudicata, per quanto Zachary tenti di dissimulare, e, sebbene una cura maggiore nei testi sia certamente riscontrabile, l’elemento vocale è ancora una volta trascurato – le parole sembrano quasi biascicate, ché tanto poi possiamo mascherare il tutto appellandoci allo shoegaze.
E tuttavia, quello dei DIIV, era un ritorno che aspettavamo con ansia e che, tutto sommato, non ha tradito le attese. E allora, la domanda che sorge spontanea è antica quanto è antica la musica: è più semplice replicare il successo dell’album d’esordio innovandosi o ripetendosi?
I DIIV, mi sembra, sanno da che parte stare.

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Antonio Felline

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Nasce, cresce, corre. Passa il suo tempo a spiegare alla gente come si possa conciliare una visione fermamente laica del mondo ad uno studio appassionato della filosofia medievale. Ama Eraclito, le poesie di Montale, gli Interpol, qualsiasi cosa esca dai piedi di Leo Messi.

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