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Lucio Leoni: Il Grande Vecchio Della Musica Italiana

Giulio Marino
di Giulio Marino
16 Giugno 2025
Lucio Leoni

Lucio Leoni: nuove canzoni, il ritorno, la politica, la cultura, la musica. E a proposito del suo omonimo per metà Lucio Corsi dice che…

Liberamente tratto da tre ore in compagnia del brillante artista romano

Ph. © Marta Coratella

Lucio Leoni era sparito senza avvisare (quasi) nessuno. Poi  riappare su un palco nello scorso novembre. Non fa mai nulla per caso e gli chiedo se bollisse qualcosa in pentola. Risposta: «Mah, ho qualche canzone nuova». Comincio un discreto, ma costante, pressing. Resiste per cinque mesi, poi lo convinco e mi dà appuntamento. Lo manchiamo tutti e due ed è sicuramente un ottimo segnale. Un mese dopo passo a trovarlo nel suo laboratorio dove pensa e realizza meravigliose creazioni per le nostre teste (senza sapere che ne uscirò da lì dopo tre ore). Intervistare chi conosci bene è sempre delicato, può venir fuori qualcosa di meraviglioso o puoi rovinare un’amicizia per sempre. Ti giochi tutto con le prime domande… quindi decido di muovermi con cautela e prenderla alla larga.

Allora? Nuove canzoni, nuovo disco?

Ah, bellissima domanda. Sto cercando un registratore a nastro a quattro piste.

E ti pareva, ancora insisti con la musicassetta? Vuoi finire al museo degli strumenti musicali?

Lo sapevo, chiacchierare con con te è difficile. A parte tutto, o faccio perché mi va e senza nessun’aspettativa. Non ho ufficio stampa, non ho un booking. Ho deciso di riprendere a riaffacciarmi sui palchi perché con Daniele Borsato, la mia metà artistica, ci piace così. Suoniamo nei posti in cui ci piace suonare; nei posti dove ci chiamano. Quest’anno per ora abbiamo due date, anzi tre. Come vedi senza stress, senza dannarci l’anima.

Quando e dove?

Una a Fano, la seconda a Marina di Ravenna, la terza in un alpeggio in Piemonte. Tutte situazioni stimolanti. Sono persone che ci hanno scelto senza troppe storie. Ho passato una vita a dire sempre di sì, ad accettare di suonare in situazioni più o meno precarie e in alcuni casi anche poco rispettose. Oggi faccio altro e sono libero dalla necessità di “dover” a tutti i costi. Ho superato i 40 anni e direi basta.

Ok, ma non divagare. Questo disco lo fai?

Guarda, all’inizio sì, avevo iniziato a pensare a come registrarlo, con chi registrarlo e a quale produttore affidarmi. A un certo punto però mi sono detto che prima di registrare sarebbe stato utile capire come eseguire le canzoni. C’è un solo modo: portarle live. Suoni e se le canzoni funzionano e piacciono in giro, allora dopo fai il disco. Un tempo la tecnologia per registrare non era alla portata di tutti. Per cui prima di andare in studio a registrare un disco, dovevi trovare qualcuno che ci mettesse i soldi e te lo facesse fare. Come fare? Semplice, andavi in giro a suonare.

Lucio Leoni

E il registratore a quattro piste?

Perché penso che di base io, soprattutto quando lavoro in due con Daniele, funziono moltissimo soprattutto dal vivo. Uno dei problemi che hanno avuto i miei dischi forse è stato proprio questo, la difficoltà di rendere nelle registrazioni in studio l’approccio di ciò che invece accade ai concerti. Ad esempio, vedere dal vivo Le Interiora di Filippo e ascoltarla sul disco sono due esperienze completamente diverse. Per cui porto dietro il quattro piste, Daniele e io, voce e chitarra, registro i live e se esce fuori qualche bella versione dei pezzi la metto da parte e ci lavoro su.

E infatti registrasti in presa diretta “Lorem Ipsum”. Hai fatto lo stesso con gli altri dischi?

No, con gli altri dischi le parti dei diversi strumenti sono state registrate separatamente. “Lorem Ipsum” è il solo che ho registrato in presa diretta e che rende in modo più omogeneo sia live che su disco. Suonavamo tutti in contemporanea e al massimo con tre take. A Me Mi addirittura è stata messa dentro con una sola take. Ma credo anche Luna, il primo pezzo che abbiamo registrato.

‘Luna’ tre take, presa la seconda. In mezz’ora avevamo la prima canzone nel disco. Finito tutto in due giorni.

Che poi ‘Luna’ è piena di errori (e ti credo n.d.r.), ma funziona benissimo. Ora che mi ci fai pensare potrebbe essere stato un problema proprio il non registrare gli altri dischi allo stesso modo. Certo, con Dove Sei sarebbe stato più laborioso. È un disco più complesso, pensato, processato, con strumentazioni particolari e arrangiamenti diversi dagli altri

I palchi erano una palestra e selezionavano i talenti. Un tempo le case discografiche avevano gli scout che andavano a vedere cinque concerti a settimana nei piccoli locali. Quando trovavano qualcuno di interessante, tornavano a vederlo due, tre, cinque volte. Dopodiché si presentavano: “ciao, siamo la RCA, hai talento, vuoi fare un disco con noi? Pensiamo a tutto; musicisti, arrangiatori, studi”

E magari tra gli arrangiatori trovavi… Ennio Morricone. Oggi cambio di paradigma: senza disco non suoni. Io invece sono vecchia scuola. Man mano che le esegui dal vivo, le canzoni prendono vita, entrano a far parte di te e diventano più belle. Quante volte Daniele ha cambiato le parti della chitarra dopo quattro live su una canzone che ormai era registrata? Quante volte ho cambiato l’armonia di una canzone o la scansione ritmica del testo perché ho capito soltanto eseguendola più volte dove respirare?

Un pezzo a caso: ‘A Me Mi’

Esatto. Quando la ascolto sul disco sento il fiatone. Oggi la faccio tutta senza colpo ferire, perché ho imparato a cantarla. Quando la registravamo non avevo idea di che cosa stessi facendo. Poi quella registrazione lì ha un sacco di cose magiche, anche per il momento in cui l’abbiamo registrata, però piano piano, dal vivo l’abbiamo trovata, costruita, gestita.

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Puoi dirci di più su queste nuove canzoni?

Sono tornato fedele al mio “approccio dell’idiozia”. Tratto con leggerezza temi anche complessi. È un marchio che mi riconosco fin da quando mi chiamavo Bucho. Infatti, ci sono un po’ di cose alla ‘Corrimano’ (confermo, capolavoro assoluto n.d.r.). Non a quei livelli, credo, perché certi lampi arrivano una volta sola nella vita, ma sono canzoni che mi piacciono molto

Ci credo, severo con te stesso come sei difficilmente le avresti proposte dal vivo. Me ne dici un paio?

Una si chiama ‘Il Grande Ormai’. Ormai è una delle parole più pronunciate. Il mondo va a velocità folle e ci sentiamo costantemente in ritardo perché “ormai” è stato già fatto tutto. Tratta anche il tema della dipendenza da dopamina che ci ha trasformati tutti in zombie chini sui cellulari a caccia disperata di like sui social. Sono pezzi che mi piacciono molto.

Poi c’è ‘19 aprile 2020’; mette sotto i riflettori la rimozione emotiva collettiva della pandemia. Ci siamo dimenticati subito di quanto accaduto, quando invece è stato un momento assai più cruciale di quanto non ci sembri e le conseguenze le vediamo oggi. Capisco che per uscire da quel periodo terribile abbiamo dovuto far finta che non fosse mai successo, ma ce lo siamo dimenticati troppo facilmente.

Recentemente mi sono imbattuto in un articolo pubblicato sui social che raccontava di una nuova variante del Covid. Gli unici commenti erano di persone infuriate contro i giornalisti; la loro colpa? Parlarne.

A me questa rimozione collettiva ferisce sarà che ho perso una persona alla quale tenevo tanto, Mirko Bertuccioli dei Camillas. Ma tanta gente che ha perso genitori, amici, familiari e mi sembra assurdo che si faccia finta di niente, puff… Poi è stata una gigantesca occasione perduta per la musica italiana. Gli artisti sono stati tra le categorie professionali più colpite. Avremmo potuto parlarci, organizzarci, incontrarci per reinventarci forme di contratti collettivi; trovare un modo per non farsi più fregare soldi dalle piattaforme di streaming. Invece abbiamo passato il tempo a lamentarci, ma alla fine ci siamo abbiamo pensato solo ai fatti nostri. Infine, il Covid ha avuto un peso decisivo su come si è trasformata la mia vita.

Lucio Leoni

Secondo te si può recuperare in qualche modo?

Ah, bella domanda. Non lo so, ma credo proprio di no, fa parte del processo di imbarbarimento del mondo. Il Covid ha accelerato processi già innescati. La nostra vita sempre meno sociale e sempre più “social”. Incontriamo gli amici su Whatsapp; niente cinema ma solo piattaforme di streaming: negozi “fisici” deserti. Poi un giorno blackout in Spagna e le persone sui treni tornano a giocare a carte per passare il tempo, scendono in piazza e riprendono a guardarsi negli occhi. A me vedere quelle scene ha fatto bene.

Dobbiamo sperare in un secondo blackout come nel 2003 allora?

Non credo, perché non siamo la Spagna. Non so se ti è capitato di entrare dentro un negozio di elettronica recentemente, i commessi non sanno più un cazzo. Sono loro i primi a dirti: «cerca su internet». Ma come «cerca su internet»? Ma che state aperti a fare? Piuttosto chiudete.

Bei tempi quando facevi una domanda al commesso e partiva con una spiegazione che nemmeno alla Normale di Pisa. E magari ti serviva solo un mouse

Ecco, altro aspetto: non c’è più competenza specifica. Nessuno sa più niente, perché è diventato importante solo essere veloci. Tutti corriamo e la competenza invece necessita di tempo per formarsi. E correndo andiamo tutti di corsa verso la merda.

Che poi il tempo c’è e ci sarà sempre. Ma ci spaventa il fermarci, le pause, il silenzio, il vuoto. Che poi è proprio in quei momenti che il cervello sfrutta per generare idee creative, talvolta geniali.

Con le nuove generazioni è diventato evidente, ma questo andazzo non è solo di oggi. Il sistema è consolidato e stratificato. Parte tutto dal sistema scolastico andato in barca. Anche l’istruzione ha perso profondità. L’università già ai miei tempi era diventata quasi una barzelletta. Però ricordo, comunque, la paura degli esami, professori che ti aprivano in due ti potevano pure bocciare. Oggi si boccia ancora? Oppure se nessuno più si iscrive al tuo ateneo e niente più soldi…meglio promuovere tutti?

Qui arriviamo a un altro punto: la ricerca ossessiva del consenso. Questo uccide l’approfondimento, la costruzione di cultura, la conoscenza. E anche la critica musicale c’è cascata dentro. «Se la critica non è feroce, l’arte diventa innocua». Indovina chi l’ha pronunciata

Eh, devo dire che mi uscì particolarmente bene. Un tempo la critica musicale era fondamentale per costruire una cultura dell’ascolto, era formativa sia per chi fruiva della musica, sia per gli artisti stessi. Costruisce una comunità, una scena, tutte cose che mancano in questo paese. Crea cultura. Perché un ragazzino davanti a un post o a un reel di un esperto, che anziché mettere il 6 politico, dà un bel 4 fornendo argomentazioni a supporto della stroncatura, mette un mattone nelle fondamenta della sua cultura musicale.

E perché parli di arte innocua?

Perché è una forma di insegnamento per chi fa musica. Perché fornisce un riscontro, un sistema di riferimento per capire cosa stanno facendo; come e dove potrebbero crescere, cosa dovrebbero o potrebbero fare. Se invece va sempre tutto bene, se non c’è niente che fa schifo e nemmeno niente che è clamorosamente bello, perché serve anche il dieci, tu hai fatto tabula rasa di cervelli e creatività, tu critico stai facendo un lavoro inutile o dannoso. Se non si lavora in questo senso allora è inutile aspettarsi la grande musica in Italia, lo Jacob Collier italiano.

Però utilizzi l’aggettivo “innocua”, non un termine qualsiasi. Ne deduco che per te l’arte ha una responsabilità

Porca miseria se ce l’ha! Ce lo siamo detti mille volte quando suonavamo insieme. Se decidi di metterti dietro a un microfono e di elevarti di qualche metro sopra un gruppo di persone, che siano 10, 100 o una folla di trentamila, quello che dici ha un peso, un effetto, non solo estetico, ma anche culturale e sociale. Stai creando una realtà per quelle persone.

Tu che responsabilità senti, o sentivi, di avere?

Responsabilità politica sempre. Per me tutto è politica, a maggior ragione l’espressione artistica. Gli artisti hanno un ruolo centrale all’interno della società. Ma dove stanno oggi gli intellettuali? Un tempo sui quotidiani scrivevano Moravia, Calvino, Pasolini; e tutti li leggevano. L’ intellettuale analizzava la società, dava il suo punto di vista in relazione alla situazione culturale di quel momento. Guardava al di là del quartiere in cui vivevi, raccontava una realtà che non vedevi e ti aiutava a leggere l’articolo di economia anche in modo diverso. Il ruolo dell’artista è quello di ricordare a tutti che esiste anche l’evoluzione emotiva, lo scambio e non solo il profitto, il futuro e non solo il presente. Oggi è un ruolo che sembra che non serva e non importi a nessuno. Poi il rischio è che ci verranno a cercare quando sarà tardi.

Quando penso al ruolo degli intellettuali mi viene sempre in mente Antonio Rezza. Durante un contraddittorio con uno spettatore, il pubblico inizia ad applaudirlo. Lui con un gesto azzittisce tutti e dice: «con tutto questo consenso sono quasi certo d’aver detto qualche cazzata». Non sarà che anche l’intellettuale ha sacrificato il suo ruolo per il consenso e i followers?

Chiediamoci: il nuovo millennio non ha prodotto intellettuali o non ha prodotto intellettuali così forti? Io penso il vero intellettuale se ne sbatte di vincere e ottenere consenso. Ma oggi se non hai followers non hai voce. Se invece di avere 5 milioni di followers ne hai 6, a chi parli? A tuo zio, tua madre, tua sorella; fine. Prima non esisteva questo problema. Prima si leggevano i giornali e il direttore decideva di darti spazio in prima pagina e ti leggevano in milioni. Oggi la carta stampata non esiste quasi più.

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Un ricordo: 25 aprile 2014, pranzo in giardino a casa tua. Lo avevi organizzato dicendo che per te era una festa importante. Ecco, che accidenti sta succedendo?

Sta succedendo che, da una parte, stanno morendo quelli che hanno vissuto quel periodo. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe accaduto quando i vecchi avrebbero smesso di farci da memoria. Perdi il contatto con le radici, e sono dolori

Solo questo?

No, ce lo siamo appena detti. Stiamo diventando tutti individualisti. Tutti a curare il nostro orticello, chiusi nel nostro piccolo mondo, sui telefoni a raccontarci le nostre vite sempre più spesso finte. Sta vincendo il nostro lato oscuro.

Rimozione collettiva anche in questo caso?

Non lo so. Io invece vedo interessi specifici che spingono nella direzione di far finta di niente. L’Italia era già fascista prima di Mussolini e ha continuato a esserlo dopo. Allo scoccare della mezzanotte del 25 aprile 1945 hanno smesso tutti di esserlo? Forse sì, ma il 1° gennaio 1946 hanno ricominciato.

Penso che in quegli anni la rimozione ci sia stata. Uno zio fascista stava in tutte le famiglie e per il pranzo di Natale ci sarebbero stati problemi.

Ah, certo. Però è anche vero che, quando non hai più i nonni che ti raccontano la guerra, i nazisti a Roma, devi chiedere aiuto ai libri. Ma chi legge più? Ci deve essere un comportamento attivo di ricerca di informazioni. Oppure devi avere la fortuna di nascere in periferia vicino a un centro sociale, frequentare persone che nel tuo quartiere mantengono viva l’attenzione e il ricordo di quanto è stato; o anche semplicemente avere una famiglia che ti trasmette certi valori. Ma se nasci nella bambagia, viziato, vita comoda, in quartieri dove il massimo che ti trovi vicino casa è l’ennesimo B&B oppure il nulla, o peggio Casapound come vicino di casa, chi ti racconta cosa?

Magari a San Giovanni ti dice bene e un giorno entri per caso al Museo Storico della Liberazione. A te chi lo raccontò?

Mia madre e mio nonno. E poi io stavo al Tufello, dove c’è ancora un collettivo che continua a fare un gran lavoro. Poi torniamo alla responsabilità dell’arte. E con tutto l’amore, con tutto il nostro punto di vista da “vecchi”, se nelle tue canzoni è tutto un “borsa di Gucci”, “Ferrari”, “Sesso e Samba”, “Rolex”, “Michael Kors”, ma dove pensiamo di andare? Parliamo anche di qualcos’altro ogni tanto, eh.

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Ora hai detto quartieri e prima hai parlato di saperci guardare al di là. Oggi l’algoritmo sfrutta i bias cognitivi della specie Homo Sapiens e ti fa crescere nelle “echo chambers”. Ti costruisce intorno una realtà che conferma le tue convinzioni, continui a guardare questo maledetto telefono, e rifiuti di considerare punti di vista diversi e comprendere le diverse prospettive di un argomento. In due parole, diventi più stupido. Ti credi un gran furbo, quando invece ti fregano in partenza.

Non credo che i social siano il male assoluto. Hanno solo attualizzato rischi già presenti dietro l’angolo. Lo abbiamo detto prima. Niente filtro, quindi o hai consenso e quindi una voce, oppure devono venirti a cercare. Ma chi ti viene a cercare è già d’accordo con te. Non devi cambiare punto di vista e allargare prospettive a una persona che è venuta a cercare te per avere conferme.

O è un haters ma ti viene a menare e basta. Ti aiuta a monetizzare, ma di certo non allarga le sue prospettive

E l’assenza di filtro è un problema grosso. Torniamo a bomba alla critica musicale. Il pensiero critico era un filtro, che i talent show hanno eliminato. Prima di questi “svoltava” chi si faceva un grandissimo culo. La gavetta era durissima, selettiva e sopravviveva chi aveva davvero qualcosa da dire, perché la forza di resistere te la dava la spinta interiore. Ma qualcosa forse oggi sta cambiando.

Cosa?

Ho sentito un’intervista di Olly, il vincitore di Sanremo. Ce l’aveva con l’ossessione di far subito palazzi dello sport e stadi. Diceva: «Lo stadio è un punto d’arrivo, se lo faccio subito, penso di essermi perso qualcosa». Se anche i giovani iniziano a pensare così, è un passo avanti. Che è una cosa curiosa. A noi che abbiamo visto i Queen a Wembley lo “stadio” racconta qualcosa. Possiamo avere una mitologia a esso legata. Oggi i più giovani magari ce l’hanno di riflesso, ma poi vanno a vedere il concerto di Benson Boone al Coachella e non si accorgono che sul palco accanto a lui c’è Brian May.

Ho sentito la parola Talent?

Sì, sono stati lo spartiacque che hanno appiattito la proposta musicale, deprivandola del potenziale rivoluzionario. L’hanno omologata a un modello secondo il quale per fare musica devi vestirti in un certo modo, devi essere bello e androgino; praticamente Damiano David. Attenzione: io non ce l’ho con i produttori televisivi, che fanno, e bene, il loro lavoro; tantomeno con le ragazze e i ragazzi che partecipano. A me fanno incazzare gli artisti validi e affermati che vanno a fare i giudici, legittimando queste trasmissioni dal punto di vista artistico. Io adoro Elio, da sempre, ma la sua partecipazione a “X-Factor” è una macchia che per me non si cancella.

Alla fine, o riempi uno stadio, magari per finta, o suoni davanti a 30 persone e per campare devi fare altri lavori.

Manca cultura musicale. In altri paesi la costruiscono fin dalle scuole elementari, con programmi specifici ed esperienze di musica d’insieme reale. Qui stiamo con il flauto dolce o la diamonica a suonare Fra Martino Campanaro. Ma non è neanche il flauto, è il valore della materia che altrove è riconosciuto
In Gran Bretagna hanno aule di musica, sale di registrazione, auditorium dentro i licei. Poi ti stupisci che da loro nasce uno come Jacob Collier, un ventenne che all’impronta crea negli stadi improvvisazioni per quarantamila persona facendole cantare come un’orchestra sinfonica.

Che poi oggi in molti casi nello stadio non ci sei arrivato tu. Altri ti hanno sollevato di peso, te l’hanno costruito intorno e te l’hanno riempito; loro, non tu. Poi, attenzione, oggi per il pubblico il protagonista non è più l’artista sul palco, ma è lo stadio stesso.

Ah, interessante. Questa cosa è colpa dei Coldplay.

Certo, lo scorso anno il loro concerto all’Olimpico sembrava un gigantesco Villaggio Valtur. Pacchetti vacanza a Roma con incluso il biglietto per il concerto. Il Coachella ormai è diventata una sfilata di influencer.

Molto interessante, non avevo mai considerato la cosa da questo punto di vista.

Se i dischi non si vendono più allora è il concerto che mi deve diventare virale. Da milioni di copie fisiche vendute, a milioni di condivisioni sui social. Poi per effetto alone aumenta il valore percepito anche di chi suo malgrado si sta esibendo sul palco.

Che sia l’unico modo per far cassa questo è fuori discussione, non lo scopriamo noi. Ecco vedi, perché noi artisti non abbiamo sfruttato lo stop pandemico per parlarci, trovare un modo anche di arginare il processo che ha trasformato la musica in qualcosa senza valore, svenduta un tanto al chilo sulle piattaforme di streaming? Non trovo pace.

Invece tutti a filmarci mentre impastavamo pagnotte

Un po’ quello, un po’ tutti preoccupati a scrivere due/tre canzoni sulla pandemia, poi tutti a dire: «e ora che faccio con il mio tour». Tutti a pensare agli affaracci nostri. A me sembra assurdo.

Lucio Leoni

Veniamo ai cantautori oggi. Che spiegazione ti dai del fenomeno Lucio Corsi?

Wow, è un anomalia del sistema. Lui ha fatto una super gavetta. Allora, c’è un noto cantautore italiano, uno dei più bravi degli ultimi 30 anni, con il quale ho parlato recentemente (omissis n.d.r.) che sostiene che l’ultimo Sanremo è stato sintomatico di una tendenza. Sono finiti nella cinquina finale le tre diverse tipologie di cantautore che da sempre l’Italia esprime. Quello che viene dall’indie e fa un po’ il De Gregori; il conservatore, tradizionalista cattolico; quello strano, l’outsider, quello “fuori posto”. A suo dire sarebbe il tornasole del grande bisogno di cantautorato del paese. Perché l’Italia è tornata ad aver bisogno di gente che ha dei contenuti, anziché queste puttanate di sole, cuore, amore o di autotune.

Lucio Corsi in parte me lo spiego anche io così. Poi a Sanremo la quota “artista strano” torna periodicamente fuori perché necessaria. Il problema poi è dopo: l’esaltazione, la santificazione del personaggio. Qua faccio veramente fatica a capire da dove arriva. Mi auguro che sia abbastanza intelligente da non farsi bruciare. Ecco, a me ha colpito questo processo di beatificazione. Anche perché non stiamo parlando di un pezzo incredibile. È un bel pezzo, ma ha scritto e cantato di molto meglio. Forse è l’Italia cha bisogno di sentirsi più buona.

Anche perché va in controtendenza con l’immagine dell’artista “strafigo” proposta dai talent

Sì, però attenzione. Anche lui è figlio dell’immagine. Anzi, era forse l’unico sprazzo di “immagine” presente all’ultimo Sanremo, altrimenti un deserto dei tartari

Perché lui sì e Giovanni Truppi nel 2021 no?

Altra bella domanda. Da una parte può darsi che sia stato il momento, nel senso che bisogna anche avere fortuna nel cogliere l’attimo giusto. Dall’altra l’immediatezza; io non credo che Giovanni si sia presentato sul palco dell’Ariston con il pezzo più giusto per far parlare di sé. A me arriva molto di più con altre canzoni che non con ‘Tuo Padre, Mia Madre, Lucia’. Il pezzo di Corsi è immediato fatto molto bene, ma super pop. Giovanni invece si è presentato sul palco con una canzone di non facile lettura; è stato molto onesto con sé stesso.

A proposito di immagine questo tuo rientro è stato annunciato da un restyling. In un oceano di filtri che ringiovaniscono tu ti presenti invecchiato. Come mai?

Primo: perché fa ride. Secondo: perché la canzone dalla quale sono scaturite tutte le altre si chiama ‘Grande Vecchio Della Musica Italiana’

Prometto che tra poco è finita. Domanda secca: quali sono i tuoi maestri o i tuoi ispiratori, che ti accendono la scintilla?

Ma in ambito musicale? Perché per me è più facile risponderti pensando a un contesto più allargato. In ambito musicale è tosta assai. A me viene in mente David Bowie; poi Alessandro Bergonzoni che però non c’entra niente con la musica

Va bene ugualmente

Ce ne sono stati tanti, però è vero, cambiano nel tempo. Bowie invece è rimasto. A dirtela tutta faccio fatica, sono cinque anni che non mi confronto con la materia “musica” e non sono più abituato a pensarci.

Allora ti dico io un artista al quale ti ho sempre associato. Sorpresa! non romano, milanese ma artista universale a 360 gradi: Enzo Jannacci. Prima parlavi di approccio dell’idiozia per colpire duro. Ecco

Oh sì, sempre stato e sempre amato profondamente. Un grande sottovalutato. In lui c’è la stessa pulizia, onestà, coerenza che prima abbiamo associato ad Antonio Rezza. Jannacci era un medico: punto. Poi però faceva, cantava, scriveva, suonava quello che cazzo gli pareva. Questa per me è una poesia infinita, la libertà. Era un artista libero.

Questa è difficile come domanda, sei pronto?

Perché invece le altre com’erano? 

Finora l’ho taciuto, ma adesso devo renderlo pubblico. Un anno fa sei diventato papà. Quali canzoni lasceresti in eredità a Pablo?

Aaah, sei un bastardo! Allora, gli lascio ‘By This River’ di Brian Eno. Gliela canto per addormentarlo, chissà, magari avrà interiorizzato la melodia e quando sarà più grande e la ascolterà gli rievocherà le sensazioni che prova oggi. Poi basta

Solo questa?

Sì, le altre non se le merita.