Giovanni Succi: dopo dieci anni di petting si comincia finalmente a scopare

«Le lische sono quel che resta del pesce, lo scheletro. Pungono anche, in bocca rompono i coglioni. Le mie parole è possibile che pungano. Io sono il pesce, loro quel che resterà di me»

Così Giovanni Succi ci racconta parte del suo percorso artistico e approfondisce la genesi di alcuni testi di “Necroide”, l’ultimo album dei Bachi da Pietra già considerato da molti uno dei più bei dischi del 2015.

Citerò la scena di un famosissimo film di Abatantuono: «Ma tu come te chiami?».
Ai tempi dei Madrigali Magri nei crediti dei dischi compariva un Gianbeppe Succi; in seguito ho scoperto un Giuseppe Succi e poi Giovanni Succi. Svelaci questo enigma, se di enigma si tratta.

Giambeppe era un soprannome locale che cominciava a costarmi una serie di equivoci, essendo Giovanni il mio vero nome all’anagrafe. Giuseppe non l’ho mai usato, è figlio delle tante imprecisioni di chi scrive di musica.

Nel 2004 inizi l’avventura dei Bachi da Pietra con Bruno Dorella (già Ronin, Ovo, Wolfango), un progetto la cui linfa vitale è l’energia cruda di due singoli strumenti – chitarra e batteria. Come vi siete conosciuti tu e Bruno?
Quale è stato il baco/larva iniziale?

Intorno al 2002, all’uscita di “Malacarne” (Madrigali Magri) ricevetti una mail entusiastica da Bruno che auspicava un possibile incrocio delle nostre strade e ne fui felice. All’epoca non avevo più una band e affrontai il tour di “Malacarne” da solo (una ventina di date tra Lecce e Parigi).
Nel 2004 fummo coinvolti entrambi nelle musiche per di un reading di Gianluca Mercadante: lì capimmo che era il caso di fare sul serio tra noi due. Ricordo l’SMS col quale gli comunicai che avevo il nome del gruppo: gli piacque subito.
Il primo concerto fu nei sotterranei della chiesa di San Ippolito a Nizza Monferrato, nel posto dove poi registrammo “Tornare nella Terra”. Un concerto estemporaneo per la mostra di Eugenio Carena, artista di Nizza Monferrato; fu per pochi intimi e qualche vecchietta. Rodammo il repertorio che poi finì su “T.N.T”.
Fu il primo indimenticabile concerto dei Bachi Da Pietra, uno dei migliori della nostra vita: non una traccia, non un video, non una foto. Solo ricordi.

Venite tutti e due da gruppi che molto hanno dato e danno alla musica alternativa italiana: cosa mettete in campo nei Bachi da Pietra per non risultare ripetitivi o cloni di voi stessi?

I Bachi da Pietra sono un micro cosmo con una precisa tavola periodica di elementi e leggi fisiche a parte, che schiude – per chi lo sa ascoltare – un immaginario puntuale e coerente, in costante metamorfosi graduale. Non siamo il gruppo schizoide che alcuni dipingono: il verme striscia e arriva anche lontano, ma ci mette del tempo.
C’è un filo conduttore molto preciso lungo l’intera produzione, per chi avesse mai voglia di seguirlo. Basta tenere a mente questo.
Tutto il resto è altro.

Crei il progetto La Morte insieme a Gamondi (Uoki Tochi), unitamente a Bruno avete collaborato con i Massimo Volume e siete arrivati a metter mano al “punto G” di uno dei dischi culto della discografia alternativa italiana (“Hai Paura Del Buio?”, Afterhours): come sono arrivate tutte queste bellissime collaborazioni?

Via mail.
Previo nostro impegno costante a calcare qualsiasi palco non appena se ne presentasse l’occasione nella vita, così ci si conosce e quando c’è stima magari arriva il momento che la si fa fruttare. Il palco è la prova del nove.
O suoni sul serio e spacchi, o non esisti. Se non esisti non arriva niente.

Sei un artista impegnato in più arti, spazi dalla musica alla fotografia passando per la scrittura: qual è il segreto? Come è possibile riuscire ad essere incisivi su più fronti?

Mettendo soggetti diversi tutti perfettamente a fuoco. Credo sia questo il segreto del mio insuccesso.

Dai tempi dei Madrigali Magri la tua penna si è sempre distinta per poesia ed efficacia espressiva. Quali sono le tue fonti di ispirazione?
Da “Negarville” a “Necroide”, cosa è cambiato nel tuo modo di scrivere?

Le fonti sono innumerevoli, quando ho sete bevo ovunque. Poi magari sputo, ma bevo. Però ti prego, solo l’elenco delle formazioni della nazionale di calcio mi procura un livello di noia pari al rosario dei santini letterari. Il mio percorso in pubblico come autore comincia con “Lische”, prima di “Negarville”: le lische sono quel che resta del pesce, lo scheletro. Pungono anche, in bocca rompono i coglioni. Da allora non è cambiato molto, le mie parole è possibile che pungano.
Io sono il pesce, loro quel che resterà di me.

Potrei chiederti di parlarmi di uno qualsiasi dei brani di “Necroide”, visto il notevole spessore dei testi, ma tra tutti scelgo ‘Virus del male‘ e ‘Slayer & The Family Stone‘. Parlano di storie personali?

Mi fa piacere parlare dei testi, ti ringrazio e col tuo permesso mi allargo un po’.
Molte recensioni si sono concentrate su quanto è bella o brutta o strana o inopportuna la musica e non li hanno considerati, quando – essendo canzoni – fanno invece parte del pacchetto.
I miei testi parlano di quello che parlano e non hanno bisogno di me che li spiego, ma visto che me lo chiedi, ecco a voi ‘l’autoreferenziale esegesi dei testi dell’autore fatta da esso’.
“Necroide” è un disco mezzo necrofilo e mezzo negro; qui si parte con una domanda da un milione di dollari: cos’è la morte?
Il testo di ‘Slayer & The Family Stone‘ (lo trovi qui, ndr) si basa sull’enunciato tautologico «la morte è una seccatura, non si respira». Affermazioni incontestabilmente vere, dalle quali emerge (magari) il doppio senso ironico del termine “seccatura” e lo scoramento che a volte assale il vivente al pensiero che forse era meglio manco nascere.
La morte effettivamente un po’ dispiace, riduce ai minimi termini, alle ossa, alla polvere, residui secchi. Ma se parliamo di seccature, in Italia, peggio della morte, c’è forse solo la burocrazia.
E se parli di burocrazia sai che niente è definitivo, neanche il decesso, e potrebbero chiederti in qualsiasi momento di dimostrarlo attraverso un foglio che tu sei al mondo oppure no.
Ad esempio, l’autocertificazione sancita per legge è, come tutte le leggi italiane, una pura formalità bizantina, un’opinione del burocrate di turno.
Parentesi: con il decesso di mio padre mi è successo davvero. Devo presentare ancora oggi, a otto anni di distanza, certificati ad ogni passo per attestare il suo trapasso. Mi porto appresso una foto del loculo col suo nome e le date, ma non basta. È buffo perché molti enti, per far prima, lo considerano come se fosse ancora vivo e gli intestano bollette, gli comunicano cose, gli restituiscono somme di denaro pagate in vita ma non spettanti.
Il mese scorso l’Enel gli ha rimborsato 21,20€ con assegno circolare non trasferibile spedito per posta: lo può incassare solo lui. Conoscendolo, sarà difficile.
Come vedi nemmeno la morte in Italia è definitiva e assodata, una volta espletato regolare decesso a norma di legge fisica.
In ‘Slayer & The Family Stone‘ si immagina quindi un mondo assurdo in cui la burocrazia sia talmente pervasiva nella vita dell’individuo da stabilire per ciascun suddito il punto di morte, inteso come storno dal sistema attraverso sospensione del servizio di ossigeno in data certa atta ad una più efficiente gestione delle pratiche all’uopo della tassazione della dipartita del contribuente morituro al momento del tracollo di fascia B con sostituto d’imposta in base alle vigenti norme come da comma quasi irreversibile da giocarsi ai punti d.d.c. 34/567 bis, tris, quatern. e tomb. e succ. 33/2002 e 666/2015.
Siamo come vedi in un futuro lontanissimo (oggi), in un paese meraviglioso (l’Italia) e dunque la comunicazione col pagante è gestita su carta, o fax o mezzo raccomandata (anche se la stessa burocrazia ti impone la Posta Elettronica Certificata – caso unico al mondo – e impone per legge sul web diciture tipo “attenzione: questo è un sito web e funziona com un normale sito web nel resto del mondo”).
Ora chiunque abbia mai ricevuto una raccomandata dall’Agenzia delle Entrate (si spera non ancora dalla fantomatica Agenzia delle Uscite) o da un Ente pubblico italico qualsiasi, sa perfettamente che ci si caga in mano, perché quello è il vero imperscrutabile baratro sull’ignoto; sa che si spalancherà una voragine di incognite e tu sarai un piccolo numero nelle grinfie di un panda tutelato a vita con responsabilità zero che avrà poteri assoluti sul tuo caso umano; sa che non c’è altro modo – se non eri in casa – che strisciare (recarti) umilmente all’ufficio postale con la tua cartolina e fare la coda (o almeno, nel 2015 era così) per sapere, di grazia, che cosa altro si esige da te.
Parentesi. Da te che lavori, paghi tutto per non avere grane, da te che per poter pagare, paghi uno che di mestiere calcola e paga al posto tuo, solo lui sa quando e solo lui sa quanto, ma va bene così. (Era questa l’antica figura del commercialista, essere semi-divino che intercedeva tra il mondo delle Idee Molto Molto Confuse e la materia bruta del lavoro autonomo, lavandosene le mani di eventuali errori commessi a tuo nome. Narrano leggende che in alcuni Stati occidentali non latini ciò non fosse necessario per piccoli lavoratori in proprio quali traduttori, consulenti, informatici, musicisti, ecc. Ma si trattava di nazioni molto antipatiche, per lo più germaniche, anglosassoni e del barbaro Nord Europa).
Siamo cattolici: occorre soffrire.
Dunque morire, come pagare, in Italia non può essere una operazione facile.
Il protagonista della canzone, costretto alle trafile anche per crepare, rischia l’asfissia già all’ufficio postale; ma sopratutto scoprirà a sorpresa che la sua dipartita è fissata per la sera stessa e lì un po’ gli girano i coglioni.
Avrebbe voluto uscire (proprio quella sera, dopo mesi di divano) e andare a sentire il concerto di un gruppo che dal nome prometteva bene, un improbabile mix tra musica nera e metallo.
In italiano suonerebbe come Il Massacratore e la Famiglia Pietra.
Nel testo c’è anche un breve dialogo diretto tra il morituro e la morte (una morte burocratica che dunque si presenta con un astruso giro di parole: “fui quel che voi siete quel che sono voi sarete”). Quando il tizio prova a chiedere una proroga, che ovviamente non è contemplata nel protocollo, inciampa tergiversando nel ritornello di una vecchia canzone di quand’era ragazzino: ‘Maledetta primavera‘ di Loretta Goggi. Sanremo 1981.
Alcuni maliziosi ipotizzano – per indizi se non altro anagrafici – che quel tale sia io, che la famiglia Pietra includa sicuramente il Dorella (allargata a chiunque voglia farne parte tra il pubblico), che il Massacratore sia il Sistema Italia in tutta la sua lungimirante saggezza e che una certa ‘Primavera del sangue‘ del 2005 si sia ripresentata così (a)variata in chiave addirittura sanremese, dopo dieci anni di marcescenza nell’ombra.
In realtà ogni riferimento all’autore e al contesto reale è, come vedi, puramente voluto.
«Ma dimmi Succi, ci sta pure la morale?». Come no, compresa nel prezzo.
La morale è: se c’è un concerto che minimamente ti interessa, vacci. Potrebbe essere l’ultimo.
Veniamo ora alla esegesi di ‘Virus del male‘.
Questo è il testo, prendilo alla lettera, parola per parola, è lungo, fattelo bastare.
Se poi non basta, amici come prima.


Virus del male

Dalla cascina in riva al Bormida, persa oltre il circolo polare, sarà caduta anche l’ultima trave e anno dopo anno hanno rubato il rubabile. Legni massicci, demoni scolpiti, i vecchi materassi e le chitarre invisibili che venivi a suonare. Venivi alle prove improbabili dei Virus Del Male. Noi con la neve fino in fondo alla campagna, gli ampli sulle spalle, la vespa non passa e tu portavi birre e siga in una busta della Standa, mani gelide nei jeans e l’aria da fuggiasca. Quel che resta di Debora-e-basta è tutto quel che resta degli Evil Virus: suono che viaggia nell’aria, non lascia una traccia e passa via così.
Quel che resta degli Evil Virus è tutto quel che so di te Debora-e-basta: suono che viaggia nell’aria, viaggia senza lasciare traccia. Anche tu eri neve, le ciocche nere ghiacciate, la tua spilla dei Kiss, Superga inzuppate, andatura bizzarra, una ladra di sguardi, una gazza.
Bella abbastanza per un me sedicenne, noi fuori dal mondo fuori da Acqui Terme… E mi chiamavi Suicidio, ma non ero io, anche se il sangue sui pick-up era davvero il mio. E se il pezzo non viene la parte migliore sarà il frastuono alla fine. Eravamo rumore. E impazziva anche Debora chiusa, Debora schiva, Debora dura… Debora scusa se dico di te a tutta questa gente. Quel che resta di Debora-e-basta è tutto quel che resta degli Evil Virus: suono che viaggia nell’aria, non lascia una traccia e passa via così. Quel che resta degli Evil Virus è tutto quel che so di te Debora-e-basta: suono che viaggia nell’aria, senza lasciare traccia. E se il pezzo non viene la parte migliore sarà il frastuono alla fine. Siamo frastuono alla fine. Siamo un casino alla fine.


Però guarda, in cambio ti parlo gratis di ‘Black Metal il mio Folk‘ (il testo lo trovi qui, ndr), pensa che culo.
Posso? Grazie.
Il tecnico della caldaia è appena uscito da casa mia, si chiama Mattia, ha 27 anni e un lavoro.
Un ragazzo gentile, ponderato, professionale, tranquillo. Mio figlio Pietro di un anno e mezzo ha già fatto amicizia. Mattia è simpatico, ci sa fare col moccioso, così gli chiedo se ha figli. Mi dice di no, che nell’Italia di oggi si ha paura a metterli al mondo. Gli chiedo se scherza: è serissimo.
Gli dico di quando i nostri nonni sfornavano figli nella miseria ladra, nell’incertezza assoluta di arrivare a domani, con padri al fronte a crepare per guerre perse, madri sotto le bombe, case in macerie, cadaveri nei fossi, rastrellamenti, guerra civile, delazioni, esecuzioni sommarie…Mi risponde «sì, ma allora era meglio di adesso; mia nonna è del 1927 e dice che allora era molto meglio». Gli dico «tua nonna era adolescente negli anni Quaranta, ecco tutto». Mi dice di no, non è per quello, proprio la vita era molto meglio. Segue un minuto di silenzio. Benissimo e allora eccola la vostra vita migliore quando era peggio. Estraggo dai jeans la mia Luger Parabellum, gliela punto alla tempia e gli dico ok, in ginocchio bastardo, sentito il giudizio del Signore è del tutto diverso dal tuo. Spiacente, eri un bravo ragazzo. Non capisce.
Carico il colpo: ha capito e piange. Ma come mi ammazzi così? La tua visione offende la mia, bentornato nel buon vecchio mondo ragazzo. Sparo. Ripulirò l’ingresso poi con calma, ho il pomeriggio libero. Pietro è dai nonni.
Per lui ho scritto ‘Black Metal Il Mio Folk‘, perché gli sia di conforto, quando verranno a prenderlo, reo di un qualsiasi reato d’opinione punibile con la morte. Mattia non sa che quando qualcuno arriverà a vietare il Rock’n’Roll in nome di un Ente Supremo Qualsiasi (e ci siamo quasi – nessun assolutismo tollera il rock’n’roll), sarà troppo tardi per tornare indietro e bisognerà ricominciare a versare il sangue vero.
La canzone è uno scenario in cui non ho messo fantasia. Ieri ho sentito il prete di Radio Maria dire che «certi giornalisti andrebbero impiccati» (testuale). L’esercito islamico non sarà così clemente. E a qualsiasi dittatore starà sul cazzo la musica negroide (definizione del Jazz messo al bando nel ventennio fascista, 1925-1945).
È tutto pronto, compreso il nostro beato sonno e la totale incapacità di vedere il pericolo che corrono i fondamenti delle cose che ci rendono quello che siamo.
Saranno di nuovo i favolosi anni Quaranta. Vedrai che bello, Mattia.

Giovanni Succi

“Necroide” è un disco autorevole ma che ama prendersi poco sul serio. Le tematiche sono profonde e impegnate ma è presente anche l’ironia di pezzi come ‘Apocalinsect‘, ‘Cofani funebri‘: è una mia sensazione o sbaglio?

Una sensazione basata sui sensi è quasi sempre fondata. Uno come Tom Waits o Paolo Conte (…o Giorgio Caproni, o Edoardo Sanguineti), insegna che si può anche fare dannatamente sul serio senza prendersi dannatamente sul serio.

Viviamo in una società in cui è sempre più facile trovare “chi si erge a padreterno sul lombrico”, una società che rischia di auto estinguersi. Dobbiamo davvero aspettarci una “macabra” fine generalizzata o esiste ancora la possibilità di una via d’uscita come sembri suggerire in ‘Sepolta viva‘?

In ‘Sepolta viva‘ mi rivolgo a una singola persona. Non ho ricette per le masse, anche perché non esistono. Ho suggerimenti per chi potrebbe alzare il culo adesso e cominciare a dare una svolta alla propria unica, singola, volatile esistenza. Non servono elucubrazioni, servono gesti, fatti, mosse, azioni fisiche diverse. Un primo passo. Con fatica, col tempo. Diversamente solo fuffa, non credo a nessuna delle ricette preconfezionate dal brillante pensiero umano per redimere le sorti dell’umanità. Per me nessuna ideologia e nessuna religione, solo pragmatismo e caso per caso. Però mi piace Cristo quando dice a Lazzaro «alzati e cammina» e non aggiunge «…che è pronto in tavola». Il vero miracolo sta a Lazzaro e non sarà un miracolo, sarà fatica. Magari Lazzaro preferiva starsene nella tomba. Quella dei morti è una posizione comodissima.

Al primo ascolto “Necroide” desta attrazione, la stessa che ho colto la prima volta che ho ascoltato “Nevermaind” (Nirvana), “Terremoto” (Litfiba), “H.P.D.B.?” (Afterhours) e ultimamente, “Stavolta come mi ammazzerai?” (Edda).
Diciamo che ha tutte le carte in regola per diventare una pietra miliare del rock italiano: che tipo di riscontro state avendo dai fan e dal pubblico in generale?

Ottimo riscontro, dopo dieci anni di petting si comincia finalmente a scopare. Ti ringrazio per i paragoni lusinghieri. Confesso che ogni disco che rilascio con sopra il mio nome ha, nella mia povera e illusa mente bacata, le carte in regola per diventare una pietra miliare, almeno del rock italiano. Se no non lo farei. Ovviamente non accade puntualmente mai, né credo mai accadrà, di certo non prima della mia dipartita fisica. Un po’ di morte e di futuro postumo mi faranno un
gran bene, vedrai. (Se poi non sarà così, da defunto – prometto – non sarò deluso).

“Necroide” arriva in un momento particolare per la musica alternativa italiana, un momento in cui c’è bisogno di freschezza espressiva, grinta e soprattutto prese di posizione; Vi eravate preposti dei paletti da rispettare in fase di stesura disco o tutto è avvenuto casualmente?

L’unica composizione veramente casuale che puoi ascoltare è quella che senti in questo preciso istante tendendo l’orecchio fuori dalla finestra. Ma se decidi che è musica, quella diventa una “tua” composizione e il caso già arretra di un passo. Quanto ai paletti non ne so niente, chiedi ai geometri.

I Bachi da Pietra in circa 10 anni di attività hanno prodotto sei album in studio, molto variegati dimostrato di saperci fare con più stili, quale sarà il prossimo passo?

Sarà un inciampo, promesso. Il prossimo sarà il disco brutto. Dai, a ‘sto punto ci sta.

Per il momento ci godiamo “Necroide” e il suo tour. Come suoneranno dal vivo queste 11 tracce? Quale sarà la dimensione di “Necroide Tour”?

Come sai le dimensioni contano, guarda un po’ che stazza di insetti che siamo: ne hai mai visti di così grossi? Pensa che tristezza deludere in concerto con un album come questo. Potremmo ritirarci e andare alla bocciofila. Invece dal vivo sarà ancora meglio, perché ci saremo noi lì a farlo, nello stesso irripetibile momento, per te che hai mollato il tuo divano apposta per viverlo, noi rischiando il tutto per tutto ad ogni battito, ad ogni accordo. Due grossi insetti sul palco e niente altro (come sempre del resto).

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