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Rock In Roma 2025 | Fontaines D.C.

Fontaines D.C. e Shame, un'accoppiata eccezionale

Post-punk e poesia sotto le stelle

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di Stefano Panaro
19 Giugno 2025
Fontaines D.C

Roma, 19 Giugno 2025

Ieri sera, Roma si è colorata di suoni ruvidi ed energia travolgente con l’attesissimo doppio concerto di Shame e Fontaines D.C. al Rock in Roma 2025. All’Ippodromo delle Capannelle, centinaia di fan hanno assistito a una delle serate più potenti dell’edizione: un’immersione completa nel meglio della scena post-punk contemporanea, tra assalti sonori e momenti di pura intensità emotiva.

Shame, una forza viscerale

Ad aprire le danze ci hanno pensato gli Shame, la band di South London che si è guadagnata negli anni un posto d’onore nel panorama alternative europeo. Il gruppo è salito sul palco con la consueta carica anarchica e senza compromessi, dando il via a uno show che ha unito energia cruda e teatralità nevrotica.

Il frontman Charlie Steen ha immediatamente conquistato la scena: petto nudo, occhi spiritati e movimenti frenetici. La sua voce ha tagliato l’aria mentre la band suonava senza sosta, spaziando tra i brani storici e le ultime tracce di Food for Worms. Brani come Concrete, Fingers of Steel e Six-Pack hanno scatenato il pogo sotto palco, con il pubblico in delirio.

Il suono degli Shame si è rivelato ruvido, spigoloso, ma perfettamente calibrato. Il loro live è sembrato un’esplosione controllata, costruita per scuotere l’ascoltatore e farlo sprofondare nei contrasti del presente. Ogni brano è arrivato come uno schiaffo sonoro, eppure nulla è sembrato fuori posto: caos e coerenza sono andati a braccetto, in una performance breve ma potentissima. Peccato l’acustica abbia penalizzato la performance, sfociata in un crowdsurfing.

Fontaines D.C.: profondità e poesia urbana

Dopo un cambio palco fulmineo, la scena è passata ai Fontaines D.C., quintetto irlandese che negli ultimi anni ha ridefinito il suono del post-punk. Con il loro ultimo album Romance ancora fresco di stampa, i Fontaines hanno regalato al pubblico romano un live intenso e ipnotico, dove ogni parola pesava come un macigno.

Grian Chatten, voce e anima della band, è entrato in scena con l’aria di chi ha qualcosa di urgente da dire. Pochissime parole, sguardo fisso e movimenti ossessivi: ha lasciato parlare i brani, ed è bastato. A Hero’s Death, Televised Mind, Jackie Down the Line, Starburster e I Love You hanno costruito un’atmosfera densa, a tratti cupa, che ha coinvolto completamente il pubblico.

Il suono dei Fontaines D.C. è sembrato meno esplosivo rispetto a quello degli Shame, ma decisamente più profondo e stratificato. Le chitarre si sono rincorse con malinconia, la sezione ritmica ha battuto il tempo con precisione chirurgica, mentre Grian cantava la solitudine, la rabbia e la nostalgia della sua generazione.

Due band, due anime frutto dello stesso malessere

La scelta di unire Shame e Fontaines D.C. nella stessa serata si è rivelata vincente. Due approcci diversi al post-punk – viscerale e immediato da un lato, poetico e riflessivo dall’altro – ma un comune denominatore emotivo. Entrambe le band hanno portato sul palco la fragilità di una generazione disillusa, il bisogno di gridare ciò che spesso resta taciuto.

Il pubblico, giovane e coinvolto, ha partecipato attivamente, tra pogo, cori, occhi chiusi e braccia alzate. Non si è trattato solo di ascoltare un concerto, ma di vivere un momento collettivo, di sentirsi parte di qualcosa.

Il successo dei Fontaines D.C.

Nei testi dei Fontaines D.C. si addensa una geografia emotiva che va ben oltre il consueto racconto post-punk di alienazione urbana: è una cartografia di identità, memoria e resistenza che, album dopo album, mette in discussione il presente dell’Irlanda e, per riflesso, di un’intera generazione europea cresciuta fra austerità economica e iperconnessione digitale.

Fin da Dogrel — titolo che omaggia la poesia popolare dublinese — Grian Chatten e compagni intrecciano slang di strada, riferimenti letterari (da Kavanagh a Joyce) e immagini da cartolina capovolta per smontare il mito turistico di Dublino e mostrarne gli angoli spogliati di romanticismo, tra pub gentrificati e periferie sommerse dai cartelli for rent.

La loro scrittura, secca e ritmica come un tamburo bodhrán, rende la città un personaggio: un luogo che ti accoglie con una pinta in mano ma ti ricorda subito quanto costa restarci, economicamente e psicologicamente. Questa attenzione al paesaggio sociale è importante perché restituisce una narrativa irlandese libera da clichés, capace di parlare a chiunque viva lo squilibrio fra radici e globalizzazione.

Di questa onestà c’è bisogno in un panorama rock che troppo spesso estetizza il malessere: i Fontaines D.C. ricordano che il disagio non è posa, bensì carne viva che brucia sotto le luci del palco. Con Skinty Fia – espressione gaelica che suona come “maledizione del cervo” – i temi si allargano al trauma coloniale e alla diaspora irlandese, mostrando come l’identità si sgretoli quando viene esportata e consumata all’estero come folklore prêt-à-porter.