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ZU: la potenza generativa del caos

Al Monk non delude il ritorno dal vivo della storica band

Un live degli Zu può rapirti per un viaggio negli abissi più oscuri, così come spararti fino ai limiti estremi dell’universo finora conosciuto. La scelta del tipo di viaggio dipende da te.

Roma, 19 gennaio 2025

La musica degli Zu mi ricorda quella che, ai miei vent’anni, nacque come un’esperienza riempitiva, intrapresa all’inizio per fuggire il vuoto e la noia esistenziale dei sabato di un tardo adolescente problematico. Doveva durare giusto lo spazio di qualche mese, andò avanti tre anni e mezzo.

Quella partecipazione a un laboratorio musicale di improvvisazione libera, a livello musicale è stata, a oggi, l’esperienza formativa più importante della mia vita. Abbattere qualsiasi struttura, ribaltare prospettive, accostare generi musicali antitetici, allenarsi nel riconoscere potenzialità espressive e musicali. Trasformare in musica in qualsiasi suono esistente sulla faccia della terra, dal suono di piano più intenso all’elenco telefonico letto al contrario. Ma soprattutto potenziare la capacità di ascolto a trecentosessanta gradi. diventare io stesso suono, recepire la qualità della vibrazione energetica della musica e iniziare a vibrare con la stessa frequenza.

Senza tutto ciò, sarebbe stato assai più difficile raccontare il concerto degli Zu al Monk. Già ripercorrere esaustivamente la loro biografia prenderebbe un paio di cartelle di testo. Qui solo i dati essenziali: primi vagiti in una sala prove di Ostia, 30 anni abbondanti di carriera, 16 album in studio. Un numero di concerti in tutto il mondo nell’ordine delle migliaia. Collaborazioni con Mike Patton a Demo Suzuki (Can), Thurston Moore, Mats Gustafsson, No Means No, Steve MacKay (The Stooges), Joe Lally (Fugazi), FM Einheit (Einsturzende Neubauten), Steve Albini. Può bastare e mi fermo qui, non prima di aver ricordato l’ammirazione di John Zorn per la portata rivoluzionaria della loro musica.

Arrivo al Monk sotto una fredda pioggia battente. «Bel tempo demmerda, eh!» mi urla una ragazza da dentro la sua automobile. Sorvolo sulla mia risposta, mentre mi chiedo quale espressione della mia faccia abbia potuto spingerla a questa manifestazione di siffatta empatia. Guadagno la sala in tempo per l’apertura dei Deflore, duo romano che si muove in una terra di confine tra industrial, elettronica e black metal.

Deflore
Deflore

Attivi da vent’anni, anche loro con una collaborazione d’eccezione nel carniere, Jaz Coleman dei Killing Joke. Portano sul palco il loro ultimo lavoro “Defective Music for a Daily Psuchosis”. Brani potenti, toni epici e incalzanti, in cui confluiscono sonorità che vanno dall’industrial, al metal più oscuro, all’elettronica. Il tutto con una spruzzata di elementi percussivi tribali. Forse un po’ ripetitivi in qualche passaggio, ma nel complesso di sicuro impatto. Qualche piccolo problema tecnico durante il primo pezzo, ma poi tutto si appiana. Prima considerazione personale, forse un’apertura troppo simile alla band headliner. Seconda considerazione personale, sebbene la serata sia dedicata alla musica strumentale, un microfono per la voce aiuterebbe le band a comunicare con il pubblico senza dover urlare. Ma sono dettagli.

Quella di stasera è per gli Zu la terza data di un tour europeo che toccherà anche Svizzera, Francia, Belgio, Olanda Germania, Serbia Ungheria, Repubblica Ceca e Croazia. Gli storici Luca Mai al sax baritono e Massimo Pupillo al basso sono affiancati dal recente “acquisto”, Paolo Mongardi (già con i Traum) alla batteria. Il set prevede quattordici brani, estratti quasi esclusivamente da Carboniferous e Cortar Todo, per un’ora e venti di concerto travolge, sommerge, annichilisce, rigenera.

Massimo Pupillo Zu
Massimo Pupillo

Implacabile, solenne, una messa sonora che esplode in un’orgia dionisiaca di suono. Ottanta minuti al massimo delle possibilità umane, o quasi. Inondazione sonica (sì, è un riferimento voluto) al massimo dell’intensità. Paolo Mongardi appare quasi tarantolato alla batteria; sfrutta al massimo le possibilità timbriche dello strumento e travolge con un drumming percussivo. Il basso di Pupillo porta alle estreme conseguenze l’utilizzo di distorsione e di effetti polifonici. Il sax baritono di Luca Mai si muove tra sonorità provenienti direttamente dal centro della terra, a urla lancinanti tirate fuori giocando con gli armonici.

Dimenticavo: una terza considerazione personale. Dalla mia posizione, avanzata ma leggermente decentrata, devo lavorare di fantasia per immaginare la presenza di Massimo Pupillo, sul palco. L’effetto “nebbia”, da sempre problema principe per i fotografi, rende spesso difficile la vita, anzi la vista, anche al pubblico. Al Monk succede troppo spesso. Questo non è un dettaglio.

È tempesta meteorica, reazione del nucleo di un atomo di plutonio bombardato da particelle di energia all’interno di un acceleratore nucleare. Prendono forma scenari apocalittici in cui elementi metal, noise, free jazz, hardcore, industrial si scontrano, si amalgamano, si armonizzano. Una furia distruttrice, ma parimenti purificatrice e generativa, nuovi mondi, nuovi orizzonti, un modo altro di scoprire e considerare la musica.

Luca Mai Zu
Luca Mai

Con un intero concerto suonato con il pedale dell’acceleratore premuto a tavoletta, il pelo nell’uovo trova la sua residenza in una scarsa ricchezza dinamica. Un “fortissimo” costante, o quasi, che lascia poco spazio a momenti di respiro e a minor densità sonora. Poco utilizzo di pausa e silenzi, poco sfruttata tutta la loro potenzialità di creare tensione. Gli Zu accendono un frullatore atomico di suoni, che porta con sé la capacità di rappresentare una contemporaneità in cui la noia è stata sostituita dalla frenesia di una corsa senza limiti di velocità. Un gigantesco vortice di grida indiavolate, all’interno del quale l’affermazione di noi stessi è demandata ai decibel analogici o digitali che testimoniano la nostra presenza

Spazi di più ampio respiro si affacciano nella seconda parte del live, quando il sax di Luca Mai resta a scandire implacabile una pulsazione metronomica, in cui gradualmente si inseriscono gli altri strumenti. Tempi in quattro o terzinati si alternano a incastri ritmici impossibili, nei quali tuttavia, nel cui flusso i corpi degli spettatori si inseriscono agevolmente. Dietro quello che è un apparente e anarchico caos, si individuano le microcellule ritmico/melodiche che ne costituiscono l’attrattore che ne fa da ossatura portante.

Paolo Mongardi Zu
Paolo Mongardi

Sequenze elettroniche fanno da base a una batteria impazzita, sulla quale si inseguono basso e sax baritono. Quello che sembra non avere ordine, improvvisamente si manifesta in tutta la sua intrinseca e frattale bellezza. Strutture ricorsive che richiamano, almeno nella mia immaginazione, la sezione aurea, che restituisce ordine e armonia al caos primigenio.

E la bellezza diventa il canto di una maestra india dell’Amazzonia, che resta da sola, sulla coda del concerto. Il potere curativo del canto, scoperto da Massimo Pupilio durante il suo soggiorno in Perù ci accompagna fuori dalla sala concerti. Ottanta minuti di live che ne sono valsi almeno centoventi. Gli Zu hanno aperto così il 2025 dei concerti. Tempo di fare i complimenti, meritatissimi, al fonico di sala, di respirare l’aria profumata di pioggia, di incrociare due malcapitate dimentiche dell’orario del concerto anticipato alle 19 e di ricordare le esperienze con il gruppo di improvvisazione di cui parlavo all’inizio. Si chiamava LSD: era l’acronimo di Libera Società D’improvvisazione. il ricordo glielo dovevo, da trent’anni almeno.

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