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Vinicio Capossela

Vinicio Capossela live a San Salvatore di Sinis (OR): una storia da raccontare

Il sole alle spalle sta scendendo lentamente quando Vinicio Capossela esce dal retro della piccola chiesetta di San Salvatore di Sinis (OR) con l’immancabile cappello sulla testa e gli zoccoli in mano. È scalzo perché è giusto che sia così, per celebrare is curridoris, coloro che in questa borgata il primo sabato di settembre portano a piedi nudi per sette chilometri il simulacro di San Salvatore.
«È anche una questione di rispetto», ci dice, perché dove poggia lui i piedi in questo momento «in antichità c’era un pozzo per il culto dell’acqua».
C’è una storia lunga millenni in questo luogo sacro.
E Vinicio non perde tempo, ci parla di questo flusso di energia che la terra ci regala.
Non è un caso che lui sia proprio qui il 5 giugno, per presentarci il suo nuovo lavoro discografico, “Canzoni della Cupa”, perché come scrive nella sua pagina facebook «Ci sembrava bello venirlo a battezzare raccontandone la storia, nel villaggio metafisico di San Salvatore, per omaggiare la Sardegna e la regione del Sinis che ne aveva raccolto i primi vagiti».

Tiene il cappello rivolto di poco verso il basso per proteggersi dal sole, non vuole una sedia, preferisce restare in piedi, ci parla e arrotola i ricci ribelli intorni al dito.

“Canzoni della Cupa” è un disco in due parti, lato Polvere e lato Ombra.
Ci dice di assaporarlo in due volte consigliandoci di lasciare Ombra alla fine dell’estate.
Racconta di luoghi, di folklore, di vite, di tradizioni.
Sono canzoni che a Vinicio hanno dato «calore e radice, paura e conforto».
Perché in fondo conoscere le proprie radici e avere un rapporto con tutto quello che proviene dal nostro passato in qualche modo ci conforta.
Ha tanto da raccontarci, tanti piccoli aneddoti su questo lavoro iniziato per caso nel 2003 proprio qui, a Cabras, e terminato dopo tredici anni.
Si sa, una caratteristica che contraddistingue Vinicio Capossela è che lui è in grado di cucirsele addosso certe storie, di farle un po’ sue. Non potrebbe raccontarcele tutte, il tempo a disposizione non è tanto. Ci racconta quello che appartiene di più a noi sardi.
Ci racconta come è nato ‘Componidori‘.
Di una sera fatta di vino e porcetto.
Di quella che ai suoi occhi è parsa la sacrificazione del porcetto e dalla quale è partita una visione. Di una ragazza, una massaiedda che gli racconta di una vestizione che avviene appunto sul Componidori durante la Sartiglia a carnevale.
Di come un uomo improvvisamente diventa una divinità, senza volto, e dal quale dipende metaforicamente parlando la fertilità dei campi e la prosperità dei raccolti.
Di come quest’uomo che per tutta la giornata deve stare sopra il cavallo e innalzato al ruolo di semi-Dio non può toccare terra.
Privato delle funzioni corporali, orlato di merletti e pizzo, con un cilindro arrivato da chissà dove. Ce la regala in anteprima qui, accompagnato da due tamburini, suonatori di tamburi che accompagnano i cavalieri della Sartiglia durante tutta la giostra equestre.

È visibilmente emozionato quando con l’ultima nota della canzone il pubblico gli regala non solo l’applauso ma anche il suo cuore: come ci dice lui stesso, «la Sardegna è una terra che regala tanto, a patto che non passi il tuo tempo in una grande villa o su uno yatch».
E lui a quanto pare ha ricevuto molto e quest’ultimo applauso ne è la conferma.

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