Stereolab, bentornati agli anni Novanta

La band franco-britannica porta il proprio sound all’Orion Live Club di Ciampino, alle porte di Roma

In apertura il francese Julien Gasc

Il mio tempo perduto affonda le origini nei primi anni Settanta, quando la televisione italiana iniziava le sue trasmissioni alle ore diciassette.
E una buona parte di esso sono le musiche dei monoscopi Rai che al tempo facevano da preludio all’attesa tv dei ragazzi, alle gare di sci la mattina o alle partite delle squadre italiane nei mercoledì di coppe europee impegnate sui campi dell’est europeo, spesso giocate nelle prime ore del pomeriggio a causa dell’assenza di illuminazione negli stadi.
Non conoscevo quei brani, rigorosamente soltanto strumentali, che interrompevano il fischio del monoscopio (per la cronaca trattavasi di un tono puro, un sol a 384 hertz) ed erano il segnale che qualcosa di inatteso stava per succedere.
Tuttora ne ignoro origine e autori, e magari un giorno chiederò informazioni agli archivisti della Rai.

Cosa c’entra tutto questo con gli Stereolab?
Semplice: fu la band anglo/francese a riportarmeli in mente la prima volta che ascoltai la lor musica.
Mi imbattei in loro nel 1993, all’indomani dell’uscita del loro secondo lavoro, “Transient Random-Noise Bursts with Announcements”, ritrovando richiami a quei suoni tardo anni Sessanta.
Il loro percorso artistico poi prese numerose ed eterogenee diramazioni, ma il colpo di fulmine scoppiò allora e per quel preciso motivo.
Per cui, dopo qualche decennio averli praticamente che suonano sotto casa è un treno sul quale decido di saltare al volo.

Entro all’Orion di Ciampino come sempre con anticipo bernese.
Perlustro la sala, colto dalla consueta ipercinesi.
La nevrosi da musicista mancato, o fallito, mi porta a curiosare la strumentazione sul palco, dove campeggiano un Fender Twin Reverb da un lato e una cassa Orange con testata Fender dall’altra. Immancabile anche la gita al banco del merchandising, dove ho modo di apprezzare un invitante vassoio con il logo della band.
Idea sicuramente geniale, ma sono abbastanza povero e passo oltre.

Sono anche abbastanza buono da sorvolare su Julien Gasc, chansonnier e collaboratore di una delle due menti del progetto, Lætitia Sadier, che apre il live accompagnato da basi e da coreografie delle quali avremmo fatto a meno.

Julien Gasc

Intanto la sala si riempie, la risposta del pubblico credo sia andata oltre le aspettative degli organizzatori.
Come ormai è consuetudine per il rock, il pubblico dei concerti è un mosaico variegato e contrastante di giovani accanto a ruggenti leoni delle notti rock romane che furono.
L’attesa è breve.
Passano pochi minuti e, oltre alla già citata Sadier, vocalist e polistrumentista, salgono on stage il suo storico compagno d’avventura Tim Gane alla chitarra, Joseph Watson alle tastiere, Andy Ramsay alla batteria e percussioni e Xavier Munoz Guimara al basso.

Aprono con ‘Supah Jaianto‘, pezzo del 2010, tratto da “Not Music”, escludendo le compilation il loro ultimo lavoro in studio.
Un brano d’approccio, etereo, quasi a prendere le misure con il pubblico.
L’acustica non è delle migliori, ma è una costante che contraddistingue i primi pezzi dei concerti che si svolgono in strutture all’origine non pensate per la musica live.
Fortunatamente migliorerà con il prosieguo del concerto.
Si continua con ‘Lassie Fair’, il primo estratto da “Pulse of the Early Brain”, compilation di inediti uscita nel settembre di questo anno.
Il sound della band prende forma tra chitarre ossessive, groove e suoni con reminiscenze art rock della Factory di Warhol e dei Velvet Underground e lontane atmosfere psichedeliche simil barrettiane e sonorità anni ’60 che fanno il paio con il vassoio in vendita al “merch”.
Nel mio schermo mentale passano immagini tratte da film di Russ Meyer, con modelle procaci che ballano davanti alle prime radio a transistor di fogge e colori avveniristici per l’epoca. Sperimentazioni armoniche che sfidano le regole classiche e sovvertono quello che normalmente l’orecchio si aspetterebbe di udire.
Su un siffatto tappeto Lætitia Sadier, perfetta chanteuse tiene il palco con naturalezza, semplicità e carisma. 
La sua voce è un sofisticato profumo francese che ammorbidisce ogni asprezza.
Forse l’associazione proustiana con le madeleine non è così poi campata in aria.

Stereolab

Ma c’è un “ma”.
La sensazione è quella di inseguire una visione che si diverte a tentarti, ammicca, ti lascia intendere promesse di maliziose sensazioni, ma infine si prende gioco di te.
La voce ipnotizza, tappeti di synth e fraseggi provenienti da decadi passate ti illudono che la macchina del tempo sia stata inventata.
Ma è tutto troppo etereo, soffuso, vaporoso, favolistico, aristocratico
Le chitarre non hanno la cattiveria che le fa arrivare alla pancia.
La sezione di basso e batteria è tecnicamente ineccepibile, trascina quel tanto che serve, ma senza stravolgere.
Brani come ‘The Free Design‘, un tempo in 6/8 ma con spostamenti d’accento che ne mascherano la struttura e ne alterano lo scorrimento, parlano il linguaggio della complessità matematica e non dell’immediatezza deli visceri.
È un’esplorazione in territori ignoti, un viaggio di Alice, non una centrifuga emotiva.
Per dirla con pochi giri di parole: è tutto un po’ freddo.

Ma proprio quando il pubblico inizia a sentire un retrogusto amaro in bocca, il concerto cambia registro e la performance va incontro a una svolta.
Accade con ‘I Feel the Air (of Another Planet)‘, canzone tratta da “The First of Microbe Hunters”, Ep uscito nel 2000.
Si alzano le frequenze basse e si alza la temperatura.
L’inseguimento del Bianconiglio diventa una trance sciamanica e il pubblico, sottoscritto compreso, ne viene completamente rapito.
Le chitarre acquistano corpo e spessore, basso e batteria tirano giù un groove che è impossibile non seguire con il corpo.
Kraut Rock o Space Rock, chiamatelo come più vi pare e piace, ha poca importanza, in fondo chi fa musica non pensa per etichette.
Quello che conta è che gli ultimi tre pezzi prima del bis diventino un viaggio unico a velocità supersonica, in un climax crescente che non ha mai fine.

Escono dalla scena con un pubblico impazzito ed acclamante per rientrarvi subito dopo con ‘Delugeoise‘ e un’intro con tastiere progressive che non sfigurerebbe in un disco degli anni ‘70 delle Orme.
A seguire ‘French Disko‘, punk tirato e voce da sirena suadente a spiccare.
Sono i Buzzcocks cantati da Nico, mentre nel sottopalco c’è chi fa head banging.
Si chiude con ‘Simple Headphone Mind‘, a completamento di una scaletta che ha spaziato esaustivamente lungo i trent’anni di una prolifica e sterminata produzione.
Il sequencer e la drum machine che mandano in loop il cervello.
Immaginate i Pink Floyd di ‘Lucifer Sam‘, suonati dai Tangerine Dream con chitarre crunch.

E termina così, con 300 nostalgici sognatori in visibilio e io che faccio ritorno a casa in buona parte soddisfatto e felice.
Per esserlo del tutto avrei dovuto portarmi a casa le bacchette color arancione fluorescente del batterista, mentre la ragazza al mixer di sala mi capisce al volo con uno sguardo e mi passa la scaletta dei pezzi.
Me la faccio bastare.

Photo Gallery Stereolab

Roma, 10/11/2022
© Giulio Paravani / ONR

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