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Soul Asylum

Soul Asylum, un’attesa lunga 30 anni

Il sound senza tempo dei Soul Asylum

La band di David Pirner chiude all’Alcatraz il tour europeo a supporto di “Slowly But Shirley”

Milano, 12 febbraio 2025

Strano destino quello dei Soul Asylum, portabandiera di quell’alt-rock nato nei college americani e che insieme al grunge ha fornito la colonna sonora agli anni Novanta di un’intera generazione. Schiacciati tra i baby boomers ed i millennials, i Gen X hanno attraversato un periodo storico intriso di innumerevoli cambiamenti sociopolitici-culturali. Hanno vissuto gli anni di piombo e la caduta del muro, han superato i confini tra l’analogico ed il digitale ed hanno sviluppato – spesso e volentieri loro malgrado – uno scettico pragmatismo nei confronti della politica, del lavoro e delle relazioni.

Non a caso una delle canzoni simbolo di questa generazione non è una canzone d’amore né una canzona di protesta. ‘Runaway Train’ è una metafora – neanche tropo velata – della depressione. «Sembra che nessuno possa aiutarmi adesso, sono troppo coinvolto. Non c’è via d’uscita, questa volta mi sono davvero portato fuori strada», canta ancora oggi quello splendido sessantenne che è diventato David Pirner. E lo fa con lo stesso sguardo malinconico che abbiamo osservato mille volte su MTV trenta e passa anni fa, quando quel pezzo girava in heavy rotation fino allo sfinimento, croce e delizia di una band che ha seriamente rischiato di venire identificata solo con quella canzone.

Eppure c’è molto di più nei Soul Asylum. Emersi da una gelida Minneapolis e svezzati da altri splendidi perdenti come i Replacements di Paul Westerberg e gli Hüsker Dü di Bob Mould, tanto da finire per accasarsi presso la mitica Twin/Tone (in pratica il corrispettivo minneapolitano della Sub Pop) e a farsi produrre proprio dallo stesso Mould il disco d’esordio, “Say What You Will…”.

Sempre ai confini tra hardcore e garage rock, i Soul Asylum si distinguevano dagli altri per quell’innato istinto power-pop che infondeva melodia nella furia generazionale che strabordava dai solchi dei loro dischi. E in un periodo di pesca a strascico in cui le major iniziavano a cercare chi avrebbe sostituito i Quiet Riot ed i Motley Crue nelle classifiche di Billboard, non ci volle molto perché la A&M prima, e la Columbia poi, si accorgessero di loro.

Questa sera i Soul Asylum sbarcano in città, un’occasione più unica che rara per vederli finalmente dal vivo. La loro ultima apparizione su di un palco italiano risale al 1994, quando suonarono qui a Milano al Rolling Stone. Carico di entusiasmo mi avvio così verso l’Alcatraz e una volta giunto a destinazione, con grande sorpresa trovo subito parcheggio nei pressi del locale. Il che non è decisamente un buon segno, in termini di affluenza di pubblico. Espletate le formalità di ritiro dell’accredito, entro in un Alcatraz attrezzato nella sua versione a palco piccolo che però si presenta desolatamente semi-deserto. Controllo l’orario – è ancora presto, mi dico mentre mi appresto ad assistere passivamente all’esibizione abbastanza poco significativa del gruppo spalla, in compagnia di una birretta sciapa e facendo vagare lo sguardo tra lo scarso pubblico.

Soul Asylum
Soul Asylum

Due cose saltano all’occhio: la prima è che sembra di essere finiti per caso in mezzo ad una nostalgica reunion di GenXers, tra felpe e t-shirt che vanno dai REM ai Nirvana passando per i Fugazi. La seconda è la presenza vip di Manuel Agnelli, che si aggira tranquillamente per il locale. D’altronde, sappiamo bene quanto il leader degli Afterhours sia legato a queste sonorità.

Finalmente con buona puntualità sul ruolino di marcia si spengono le luci e dai diffusori parte l’intro che precede l’ingresso in scena della band. Da buoni GenXer riconosciamo al volo il tema di “Sanford And Son”, la sit-com di fine anni ’70 che qui in Italia riuscimmo a vedere solo nei primissimi anni ’80, su non ricordo quale canale berlusconiano. L’ilare musichetta introduttiva lascia il posto ai Soul Asylum che prendono subito d’assalto il paco dell’Alcatraz. Inaugurano il concerto con ‘The Only Thing I’m Missing’, brano che apre anche il loro ultimo album “Slowly But Shirley”, uscito sul finire dello scorso anno ed ovvio protagonista di questo tour. Un buon disco, probabilmente non un capolavoro e, a giudizio del vostro umile reporter, un filo al di sotto del suo predecessore, l’ottimo “Hurry Up And Wait”.

La formazione è quella dell’ultimo periodo. Dopo la scomparsa di Karl Mueller e l’abbandono di Dan Murphy,  ad affiancare l’ultimo superstite della formazione originale troviamo Ryan Smith (chitarra e discutibile maglietta a righe orizzontali bianche e nere), il bassista Jeremy Tappero ma – soprattutto – un mostruoso Micheal Bland. Dietro agli occhialoni bianchi, Bland nasconde una curriculum da paura: dopo essere stato il batterista dei New Power Generation di Prince, ha lavorato con Paul Westerberg e Chaka Khan ed era in predicato per entrare negli A Perfect Circle e nei Guns’N’Roses.

Pirner si presenta sul palco in ottima forma, nonostante gli anni abbiamo lasciato evidenti tracce di passaggio sul suol volto. Camicia slacciata nera, t-shirt d’ordinanza, jeans strappati alle ginocchia e una tonnellata di attitudine fanno di Pirner un’icona alt-rock, anche oggi a oltre trent’anni di distanza. La voce è invecchiata, ma non si è deteriorata. Si è inspessita, ed il graffiato si è fatto ancora più profondo. Dal vivo perde quella pulizia che invece troviamo tra i solchi dei dischi, restituendo al personaggio quell’aria vissuta che tende a diluirsi in studio. Salta come un grillo, cambia le chitarre passando dall’elettrica all’acustica, e sfodera tutto un campionario di mosse rock’n’roll che si contrappongono e rivaleggiano con quelle altrettanto r’n’r di Ryan Smyth, non ancora quarantenne.

La scaletta di questa sera ruota inevitabilmente attorno al nuovo album e ai due loro dischi di maggior successo. Parliamo di quel “Grave Dancers Union” che li portò ai vertici delle classifiche ed a vincere un Grammy Award, ed il seguente “Let Your Dim Light Shine”.

Oltre alla già citata ‘The Only Thing I’m Missing’, da “Slowly But Shirley” vengono presentati altri sei brani, tra cui vale la pena segnalare. La punkeggiante ‘Trial By Fire’, il power pop di ‘Freak Accident’ e la ritmata ‘Freeloader’. Ottimi brani che fungono da buon intermezzo per i veri pezzi da 90 di cui si pregia la discografia dei Soul Asylum, quelli per i quali si accende l’entusiasmo del pubblico, trascinato di peso nel sing-along da uno strepitoso David Pirner.

Unica concessione al materiale pre “Grave Dancers Union”? Un paio di brani da “Made To Be Broken” (tra cui proprio la title track) e quella botta garage-punk di ‘Little To Clean’ da “Hang Time”. A parte ‘Misery’ piazzata strategicamente nella prima parte del set, è nel finale in crescendo che il concerto arriva all’apoteosi. La band infila una dietro l’altra brani devastanti come ‘Black Gold’, l’immarcescibile ‘Runaway Train’ e ‘Bus Named Desire’. A ‘Bittersweetheart’ e ‘Just Like Anyone’ l’onore e l’onere di chiudere il set principale.

Non è ancora finita. C’è ancora spazio per un paio di bis prima che il buon David e compagni abbandonino l’Alcatraz. A suggello di un concerto tiratissimo che ha visto la band spendere quasi due ore sul palco, i Soul Asylum ci regalano altre due perle. La prima delle due quasi letterale, trattandosi di ‘Strings Of Pearl’, mentre per chiudere definitivamente la serata la scelta ricade su ‘April Fool’. Al termine del quale, riaccendendosi le luci, torniamo alla realtà odierna lasciando sbiadire i ricordi riesumati da una fantastica serata rock’n’roll. Che avrebbe meritato ben più pubblico di quello che si è in realtà presentato attorno al piccolo palco della venue milanese.

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