
Riot V, tra epica e nostalgia
Cinquant’anni di Riot senza i Riot: live show impeccabile, tra epica e nostalgia
Nessun membro originale in formazione ma sul palco i Riot V dimostrano di essere una macchina da guerra metal senza difetti. E allora, chi se ne frega del nome.
Roma, 01 Maggio 2025 | Ph. © Arianna Govoni
Si potrebbe discutere all’infinito sull’opportunità, sul diritto che il nucleo di musicisti noto come Riot V si avvalga di questo nome. Perché tra le fila di questa band non solo non c’è nessuno che abbia fatto parte dei Riot originali (quelli senza la V aggiunta a bella posta), ma non c’è neppure alcun membro apparso nei primi cinque album. Così arriviamo al paradosso di un tour organizzato per i cinquant’anni (1975/2025) dalla nascita dei Riot primigeni, nel quale il musicista da più tempo in servizio, il bassista Don Van Stavern, ha esordito ai tempi del sesto full length, uscito nel 1988!
E anche dal punto di vista stilistico, i dischi pubblicati nell’ultima decade dai Riot V, orientati verso un heavy metal epico senza compromessi, godibilissimo ma simile a quello proposto da fin troppi ensemble coevi, hanno ben poco a che spartire con quel suono urbano, colto a metà del guado fra il metal ed il vecchio hard rock, propugnato da Mark Reale e dai suoi primi sodali nella fase iniziale della carriera. Risulta poi quasi imbarazzante il risibile tentativo di Van Stavern di giustificare il furbo riciclo dell’antica sigla (in cui l’aggiunta della V marcherebbe al contempo sia un distacco che una continuità) con la presunta ‘benedizione’ ottenuta dal papà di Mark Reale, l’unico autentico depositario morale del nome Riot, purtroppo scomparso nel 2012 a causa del morbo di Crohn. Come se spettasse a quell’anziano signore, che con la musica non ha mai avuto a che fare, stabilire la legittimità o meno del progetto. A mio parere, condiviso da un’infinità di fan della vecchia guardia, sarebbe più onesto se l’attuale band si chiamasse, ad esempio, Thundersteel, come il titolo del sopraccitato lavoro del 1988, ma tant’è.
Tutto ciò premesso, alla fine poi a parlare è sempre la musica. E nel caso specifico la prestazione sul palco dei musicisti; e qui la questione cambia radicalmente. I Riot V sono, senza mezzi termini, una live band semplicemente mostruosa. Uno schiacciasassi virtualmente privo di qualsivoglia difetto, e come scrivono i cronisti sportivi scadenti, non lo scopro certo io dato che era la terza volta che suonavano a Roma, e non hanno mai deluso.
Le due chitarre di Mike Flyntz e Nick Lee sono assolutamente complementari: dove finisce l’assolo del primo, più vecchia scuola e con qualche inflessione blues, parte quello del secondo, più ‘shredder’ e moderno nello stile. Ed entrambi sono perfetti nel modulare ritmiche serrate come grattugie. In quanto a Van Stavern e al batterista Frank Gilchrist, pur se ben lungi dal costituire la sezione ritmica più fantasiosa del creato, sono metronomi inappuntabili, la cui precisione cronometrica costituisce il fondamento su cui poggia l’intera struttura chitarristica, quella che resta più impressa. Riguardo a Todd Michael Hall, quest’uomo rappresenta un autentico mistero, dato che a 55 anni suonati non soltanto sembra, beato lui, un ragazzino… ma canta con la potenza e l’estensione di chi di anni ne ha venti di meno. A proposito, la V dell’attuale monicker fa riferimento proprio alle cinque ere che i Riot hanno vissuto, ognuna delle quali caratterizzata da un diverso cantante, e Hall è appunto il quinto della serie.
I più giovani tra il pubblico presente al Traffic Live Club (comunque composto soprattutto da veterani della scena metal capitolina, ormai certe facce mi sono più familiari dei miei parenti!) mostrano di preferire lo sturm und drang degli estratti di “Thundersteel”, quali la title track, ‘Bloodstreets’ o ‘Johnny’s Back’. Io appartengo alla minoranza dei vecchietti che si emoziona a riascoltare, seppur eseguiti da quella che, come avrete intuito, ritengo una dotatissima e impeccabile tribute band, i classici tratti dalla prima magica cinquina di album, da ‘Outlaw’ a ‘Road Racin’’, con una particolare menzione per le non scontate ‘Restless Breed’ e ‘Altar Of The King’.
Ma bisognerebbe essere in malafede, o semplicemente non apprezzare l’heavy metal, per scorgere difetti sia nella scaletta che nella prestazione dei cinque americani, che ci hanno esaltato e a tratti quasi soggiogato.
Per cui, tutto sommato…finché eseguirete con eguale perizia brani nuovi e classici della tradizione Riot degli anni ’70/primi ’80, chiamatevi pure come volete: non sarà come la benedizione del babbo di Mark Reale, ma alla fine della fiera non cambia poi tanto.