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Rick Wakeman

Rick Wakeman e il potere di un solo pianoforte

Rick Wakeman chiude il suo tour solista con un’intima e brillante esibizione, tra aneddoti, virtuosismi e omaggi ai grandi della musica

Dalle epiche mura di tastiere degli anni ‘70 alla purezza del piano solo: un viaggio nella musica senza tempo di una leggenda del progressive

Roma, 04 Marzo 2025 | Ph. © Stefano Panaro

C’è qualcosa di sottilmente ironico in un concerto di Rick Wakeman accompagnato solamente dal suo pianoforte. E no, non mi riferisco allo humour sfoggiato da questo gentiluomo britannico nel corso della serata («in italiano conosco solamente poche parole, come ‘Pasta e Fagioli’ o ‘Paolo Rossi’: non che con l’inglese me la cavi molto meglio!»).

Mi ritrovo infatti a pensare al Wakeman degli anni ’70, quasi nascosto dietro ad un invalicabile muro di tastiere, durante le sue esibizioni soliste o tra le fila degli Yes. E penso che proprio quegli istrionismi, quello sfoggio di strumentazione, quella sorta di sfida a distanza con l’eterno amico/rivale Keith Emerson, abbiano rappresentato, più di ogni altra cosa, il bersaglio dell’urgenza iconoclasta e ribelle del punk nel 1977. Diretta, più di ogni altra cosa, verso i dinosauri del Rock Progressivo.

Dinosauri che ai tempi avevano pressappoco trent’anni e, come il tempo (notoriamente galantuomo) dimostrerà, ancora numerose cartucce da sparare. 

Rick ci dimostra che la Buona Musica, quella che resiste alle mode e allo scorrere del tempo, non ha età, e non ha bisogno di troppe sovrastrutture. Basta, appunto, un piano. Un semplice pianoforte che diventa però un’arma letale sotto le mani, ancora incredibilmente ispirate e veloci, di una Leggenda come lui.

Fra una battuta e l’altra («Enrico VIII ha avuto sei mogli… ci ho provato ad imitarlo, ma mi sono fermato a quattro!») Rick sciorina un repertorio che è difficile non definire immortale, saltabeccando fra i suoi primi e migliori album solisti e citazioni di David Bowie. Definisce il Duca Bianco “il più grande musicista che io abbia mai conosciuto” ed esegue ‘Space Oddity’ e ‘Life On Mars’, potendoselo ampiamente permettere perché lui, sulla versione primigenia di quei brani, ci ha suonato. E allora chiudiamo ambo gli occhi in estasi e perdoniamogli l’unica, innocente esagerazione della serata, quando afferma di aver suonato su 23 diversi dischi di David!

Forse sorprendentemente per chi non aveva seguito il tour (il nostro era già passato da Roma lo scorso 21 settembre), Wakeman si concede una personale interpretazione di due classici Beatlesiani, gli unici brani della sua esibizione alla cui stesura originale non ha partecipato: e per non far torto ad alcuno fra i due titani, esegue sia un brano di John Lennon (‘Help’) che uno di Paul McCartney (‘Eleanor Rigby’), arrangiandolo, parole sue, come avrebbe fatto il compositore russo Prokofiev. 

Desta in realtà più stupore (e, ammettiamolo, un filo di delusione) il fin troppo moderato richiamo all’ampia discografia degli Yes, dei quali esegue solamente ‘The Meeting’ (tratta dall’album di fine anni ’80 uscito sotto il monicker ‘Anderson Bruford Wakeman Howe’), la meravigliosa ‘And You And I’ e la suggestiva ‘Wonderous Stories’.

Più volte Rick sottolinea che tutti i brani da lui scritti sono stati originariamente concepiti al piano, e che dunque è questo l’abito che lui ha immaginato per loro. E più volte ci ricorda altresì che questa seconda data capitolina è l’ultima del suo lungo tour da solista al pianoforte, lasciandoci sognare un ritorno in grande stile, alla guida di una sua band o, chissà, di qualche eccitante progetto quale fu, ad esempio, quell‘Anderson Rabin Wakeman play the Music of Yes’ del non troppo lontano 2017. E le stelle stanno a guardare.

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