Paul Gilbert a Roma, il ritorno di un dio della sei corde
Al Crossroads Live Club tra virtuosismo, cuore e chitarra elettrica al massimo splendore.
Dopo tredici anni d’assenza, Paul Gilbert ha incendiato il palco del Crossroads con un live ad alto voltaggio tecnico ed emotivo. Tra classici, nuove composizioni e momenti di pura connessione col pubblico, il leggendario chitarrista ha riscritto le regole della serata perfetta.

di Stefano Panaro 27 Giugno 2025

Roma, 26 Giugno 2025
Dopo tredici anni di assenza, Paul Gilbert è tornato a farsi sentire nella Capitale e lo ha fatto nel modo più potente possibile: suonando. Suonando forte, veloce, preciso, ma soprattutto con un entusiasmo contagioso che ha trasformato il CrossRoads Live Club in una piccola cattedrale del rock.
Un ritorno atteso
L’atmosfera si è scaldata fin dalle prime ore della serata. All’esterno, una fila composita: musicisti, fan storici dei Mr. Big, nostalgici dei Racer X, curiosi della tecnica pura. Tutti lì per lui, il virtuoso della Ibanez, l’uomo che ha fatto della velocità e del controllo un’arte e che ha sempre suonato con un sorriso sulle labbra e una passione, sin da ragazzino.
Nato a Carbondale, Illinois, e cresciuto musicalmente tra i banchi del GIT di Los Angeles, Gilbert ha fatto il suo ingresso nella leggenda prima con i Racer X, una delle band più tecniche e aggressive degli anni ’80, e poi con i più melodici ma altrettanto carismatici Mr. Big, con cui ha scritto pagine indimenticabili della storia dell’hard rock (To Be With You, Green-Tinted Sixties Mind).
Ma Paul non si è mai fermato: ha inciso oltre 15 album solisti, ha insegnato, sperimentato e tenuto vivo il culto della tecnica, del tono, dell’espressione. E ora, a 57 anni suonati, sembra ancora un ragazzino sul palco: energico, ironico, brillante.
Il concerto: tecnica, cuore e umanità
Il live si è aperto in modo granitico ma a disarmare è il terzo brano: un medley tiratissimo, lungo oltre mezz’ora, senza pause, senza respiri. Paul Gilbert ha attaccato con un flusso continuo di citazioni, riff e assoli, attraversando mondi diversi – dal blues ruvido di Johnny Winter al progressive dei Yes – senza soluzione di continuità. È stato un inizio che ha preso di sorpresa il pubblico: non la scaletta classica, ma un vero e proprio viaggio strumentale.
Con la sua Ibanez a tracolla, ha guidato la serata come un direttore d’orchestra rock, sostenuto da una band solida: Marco Galiero al basso, preciso e fluido; Roberto Porta alla batteria, dinamico e mai invasivo; e Emi Gilbert alle tastiere, a creare spazi e controcanti emotivi. Tre presenze discrete ma fondamentali, capaci di dare respiro e sostanza a ogni deviazione improvvisata.
Dopo una partenza devastante, Gilbert non ha rallentato. L’assenza di pezzi originali non ha pesato sulla setlist: anzi, ha reso la performance ancora più coerente, come se avesse deciso di svestirsi dell’autore per rivestire l’interprete con un linguaggio tutto suo.
Perché vedere Gilbert suonare è come guardare un prestigiatore che ti mostra ogni trucco e riesce comunque a sorprenderti. È un virtuosismo trasparente, mai arrogante. Ti invita dentro, non ti lascia fuori.
Dita che volano, orecchie che viaggiano
Heard It on the X degli ZZ Top è suonata con grinta ma senza fretta. La scelta delle cover ha mostrato con chiarezza dove guarda oggi Gilbert: non più verso l’autocelebrazione, ma verso una mappa emotiva della musica che ama davvero.
Con Too Rolling Stoned di Robin Trower, ha lasciato emergere la sua vena più psichedelica: suoni liquidi, fraseggi sospesi, il delay che disegnava cerchi nell’aria. Non serviva riconoscere ogni brano per lasciarsi portare. Il pubblico – assorto, coinvolto, talvolta in trance – ha seguito ogni variazione come si segue un racconto.
A Whiter Shade of Pale è stata la parentesi onirica. Niente voce, solo la melodia dolce e malinconica riflessa tra la chitarra di Paul e le tastiere di Emi. La platea ha ascoltato in silenzio, come se quelle note appartenessero a una memoria collettiva più che a una canzone.
Gilbert ha parlato poco, ma con intelligenza. Un italiano semplice e diretto, battute brevi, qualche accenno a Roma. Poi di nuovo la chitarra, come se non potesse stare troppo lontano dal suo strumento. E quando ci stava, era solo per respirare il suono degli altri.
L’enciclopedia vivente della chitarra
A metà concerto, qualcuno dal pubblico ha urlato: «Sei un alieno!». Gilbert ha riso, ha fatto finta di cercare le antenne, poi ha risposto: «No, sono solo uno che ha passato la vita a suonare. E amo farlo ancora». E la verità è tutta lì.
Paul Gilbert è un’enciclopedia vivente della chitarra: ha dentro il blues, l’hard rock, il metal, la musica classica, la comicità dei cartoni animati giapponesi, la metrica jazz e il romanticismo pop. Ma soprattutto, ha dentro l’amore puro per lo strumento.
L’ultimo saluto di Gilbert è arrivato con una plettrata, lanciata in aria come in un rito. E il pubblico, in piedi, ha restituito tutta l’energia ricevuta, applaudendo uno dei più grandi chitarristi del nostro tempo.