
Negrita: il rock si riprende ciò che è suo
Sold out per i Negrita che aprono a Roma il loro tour nei club
All’Atlantico di Roma due ore e venti di “spietato” rock and roll
Roma, 08 Aprile 2025 | Ph. © Stefano Panaro
Fiumara Grande è uno degli ultimi avamposti di frontiera rimasti a Roma. Il miglio finale dell’estuario del Tevere, dal ponte della Scafa fino al Tirreno. Vi ormeggiano circa quattromila barche e per alcuni è il più grande porto canale naturale del Mediterraneo. Ma la Capitaneria di Porto di Roma la considera ufficialmente solo la foce di un fiume navigabile. Quindi per altri non lo è. Quello che è certo è che la maggioranza dei romani non ci ha mai messo piede. L’ultima volta che ce lo misi io era il 1994, ma sembrava il 1955. Sulla sponda opposta a quella in cui uccisero Pier Paolo Pasolini. In un locale il cui nome era un biglietto da visita che fugava incertezze e titubanze: Jake & Elwood. A suonare era una band dal nome provocante come il sorriso di Mick Jagger e sardonico come le rughe di Keith Richards: Negrita.
Consumai per cinque anni i loro dischi, compreso l’ottimo EP “Paradisi Per Illusi” da molti trascurato. Riempivo i miei giorni e le mie notti con i loro suoni. Poi rivolsi lo sguardo altrove. Continuai, tuttavia, a seguirne la parabola artistica e tornavo spesso a trovarli nei live con lo sguardo protettivo di chi ritrova un vecchio amore diventato profondo affetto. E, ammetto oggi, con quell’odioso atteggiamento snob che i fan della primissima ora hanno nei confronti di quelli che si accodano all’ondata post successo. Mea maxima culpa. Anni di espiazione e pentimento e stasera sono qui all’Atlantico.
Il John Lennon di ‘Give Peace a Chance’ nelle casse dell’impianto, poco prima dell’inizio del live, è un manifesto programmatico. Dichiarazione di intenti intonata alla perfezione con i contenuti del freschissimo “Canzoni per Anni Spietati”, ultimo lavoro della band, il cui tour prende avvio stasera da Roma, nel ritrovato Atlantico Live; gremito in ogni ordine di posti, come avrebbero detto un tempo, sold out come di gran voga oggi.
‘Nel Blu (Lettera ai Padroni della Terra)’ è la canzone cui è affidata l’apertura della serata. Invettiva contro i signori della guerra, attacco diretto alla manipolazione e all’imposizione della cultura della paura. Biglietto da visita di una band che racconta il mondo dal suo punto di vista e si espone senza arzigogoli retorici. Proprio come fa Pau, vulcanico ed estroverso frontman della band, tra luci blu (nomen omen) ed effetto stellato sullo sfondo.

Qualcuno tra il pubblico ha gli occhi lucidi, qualcun altro saluta, come come un amico ritrovato le fiamme e il profumo delle care vecchie valvole roventi; la ritmica incessante della Les Paul di “Mac” Petricich; il tocco e il caldo abbraccio della Strato di Drigo; l’energia e la presenza di Pau che dopo un quarto d’ora dall’inizio saluta il pubblico decidendo di guadagnarsi la simpatia e l’affetto della security: «tutto a posto all’entrata? vi hanno rotto il cazzo?». Sono i Negrita. È Rock and roll!
Manuale di sopravvivenza: pagina 12. Per capire se la persona che vi parla stia dicendo la verità oppure no, osservatele le mani, non il viso. Mentre per valutare la riuscita di un concerto che fa del coinvolgimento, dell’energia, dell’impatto del suono la sua ragion d’essere, guardatevi intorno e focalizzate l’attenzione sui movimenti del corpo degli spettatori, in particolare quelli dal bacino in giù. Se vi accorgete che è il vostro bacino a essersi animato di vita propria allora accantonate ogni considerazione. Perché si tratta di godere, nulla di diverso.
Si gode con i Negrita, anche senza la presenza di ‘Sex’ in scaletta. Lo si fa grazie anche al groove indiavolato di una sezione ritmica composta dagli storici Giacomo Rossetti al basso e Cristiano Dalla Pellegrina alla batteria. Con loro, , il maestro “Gh
ando”, al secolo Guglielmo Ridolfo Gagliano, a dar volume e aggiungere colori alla tavolozza di suoni con arabeschi di piano e tappeti di tastiere e synth.
Lo si fa con l’attacco arrabbiato dei chitarroni e del riff di ‘…E Intanto il Tempo Passa’ e con il solo “gilmouriano” di ‘Brucerò’. ‘In Ogni Atomo’ potrebbe essere la traduzione la traduzione in musica del principio dell’entaglement quantistico, ed è uno dei momenti di climax emotivo ed energetico. Poi ci si eleva, per un po’, dalla carnalità della passione.
‘Buona Fortuna’ è un ponte sospeso tra sogno e realtà. I Negrita regalano una ballad in cui l’apertura delle chitarre acustiche avvolge i suoni inconfondibili che solo una Stratocaster pulita riesce a regalarti, partendo dal Mark Knopfler del 1978 fino ad arrivare a Drigo del 2025
Infine si lascia la realtà e si sogna, e basta. Perché in quel febbraio del 1997 c’era chi sognava già. Chi non lo faceva allora, ha avuto 28 anni di tempo per imparare. Chi ha fallito nel farlo non è qui a partecipare al coro di tremila persone che spingono la voce di Pau. Peggio per lui. Serve menzionare il titolo del pezzo dedicato alle stelle comete della loro ispirazione artistica? Non credo.
Non una stella, ma una piuma che sfiora la guancia è ‘L’Uomo Sogna di Volare’. Mentre con ‘Il Libro in Una Mano, la Bomba Nell’Altra’ ritorna l’urlo delle chitarre in levare su un beat a 144 bpm (o giù di lì) a cassa dritta. Una versione tiratissima di un pezzo alla Franz Ferdinand in chiave rockblues e seimila mani a seguire la cassa dritta. Precedute poco prima sempre da ritmi in levare, atmosfere latine, corpi ondeggianti, luci brasiliane e rastafari. In due parole: ‘Radio Conga’.

‘Noi Siamo Gli Altri’ è una sorpresa che entra nel territorio del cantautorato classico. Accordi di piano di settima e la chitarra acustica sostengono un andamento metrico e melodico che nella strofa strizza l’occhio al Lucio Dalla di fine anni Settanta. E poi…
…poi ‘Cambio’, ‘Mama Maè’, ‘Hey Negrita’. ‘A Modo Mio’. È il pandemonio richiesto da Pau e potrei cavarmela così. Ma il suono del ride sul solo di chitarra del primo dei succitati quattro pezzi mi provoca un piacere sessuale e non sarebbe un racconto esaustivo del concerto se lo omettessi. ‘Gioia Infinita’ non è solo l’ultima canzone, ma un’emozione.
Quella che provo quando, alla fine, Pau ricorda Paolo Benvegnù
Quella di Valerio, un bambino che a pochi metri da me ha passato due ore e venti di concerto sulle spalle del papà a cantarle tutte.
Quella del rock che viene giù. Come stasera.
Come la grandine.