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I Molchat Doma, le vibes sovietiche ed il gelo elettronico

Il trio bielorusso ha portato il nuovo album Belaya Polosa al Roma Summer Fest 2025, tra synth, nostalgia e distacco glaciale.

I Molchat Doma hanno presentato il loro quarto album all’Auditorium Parco della Musica, mescolando l’elettronica tagliente di Belaya Polosa con il passato oscuro che li ha resi cult. Un concerto asciutto e ipnotico, dove la distanza si è fatta linguaggio.

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di Stefano Panaro
1 Luglio 2025
Molchat Doma

Roma, 1 Giugno 2025

Certe sere arrivano in silenzio e si imprimono nella memoria senza chiedere nulla. Roma ha accolto così i Molchat Doma con un ascolto attento e coinvolto. Nessuna corsa sotto palco, nessun urlo. Solo occhi fissi e corpi che si sono lasciati attraversare.

La cavea dell’Auditorium si è riempita con lentezza, complice un traffico ormai insopportabile che nel vicino Stadio Olimpico ha ospitato in contemporanea l’opera viva di Marracash. Chi è riuscito a raggiungere la venue sapeva bene cosa aspettarsi: un viaggio sonoro venuto da lontano, con radici a Minsk e rami ora distesi sull’asfalto di Los Angeles. Da lì è nato Belaya Polosa, quarto album del trio bielorusso, approdato in Italia a pochi mesi dalla sua uscita. Un disco che ha spinto i Molchat Doma verso una nuova direzione: meno nebbie lo-fi e più superfici lucide. Il tutto, con la stessa ostinata malinconia in sottofondo.

I Molchat Doma hanno iniziato senza preamboli. Le prime note di Ty Zhe Ne Znaesh’ Kto Ya sono scivolate nell’aria calda e si sono fatte spazio tra i mormorii. Il ritmo battente, quasi da club, ha acceso un movimento lento sotto il palco. Pochi passi, nessuna esplosione. I Molchat Doma non cercano il contatto, non si avvicinano. Suonano con distacco, come chi racconta qualcosa che è già passato e non si può cambiare. Ed il palco, spoglio di ogni scenografia, risulta immenso per Egor Shkutko (voce), Roman Komogortsev (chitarra, sintetizzatore, drum machine) e Pavel Kozlov (basso, sintetizzatore).

Belaya Polosa ha occupato il centro del live. Brani come Kolesom e Son hanno mostrato la nuova pelle elettronica dei Molchat Doma: sintetizzatori pieni, batteria programmata, linee vocali secche. Sul palco, Egor non ha cercato complicità. Ha cantato fermo, quasi immobile, per la maggior parte del tempo, lasciando che la voce rimbalzasse tra le pareti di cemento. Intorno a lui, le luci fredde e geometriche hanno disegnato ombre taglienti. Nessun effetto superfluo, qualche gesto teatrale a tratti, per riempire qualche spazio tra i nuovi ritmo ed il cantato.

Quando è arrivata Zimnyaya, la canzone dedicata a Minsk, la tensione si è sciolta per un attimo. Una carezza fredda, scritta da lontano ma ancora piena di radici. Il pensiero è andato a ciò che si lascia indietro, e a quello che resta anche quando si cambia paese, lingua, abitudini.

Il set non è stato solo l’occasione per presentare il nuovo lavoro. Alcuni brani storici hanno trovato il loro spazio, come Судно (Борис Рыжий) e Kletka. Lì il pubblico ha reagito in modo diverso, riconoscendo melodie che hanno accompagnato momenti personali. Le influenze di Depeche Mode e The Cure sono emerse qua e là, ma senza imitazione. I Molchat Doma le hanno fatte proprie, distillandole in una forma più asciutta. Il suono ha oscillato tra passato e futuro, come se la band stesse ancora cercando una collocazione definitiva. E forse è proprio questa incertezza a rendere autentico ogni passaggio.

Ma cosa si può capire da un testo che non è cantato in italiano, in inglese o in spagnolo? I Molchat Doma cantano in bielorusso, eppure con le loro sonorità sono riusciti a catturare attenzione a livello internazionale.

Nei loro testi si respira un’aria pesante ma non soffocante. Un peso fatto di alienazione quotidiana, vite spente troppo presto, sogni che non hanno mai fatto in tempo a diventare reali. La band ha preso in prestito il linguaggio del post-punk sovietico e lo ha spinto oltre il margine, fino a toccare il malessere esistenziale della generazione contemporanea.

Ogni parola sembra arrivare da un luogo dove il futuro è rimasto bloccato e il presente si consuma in spazi vuoti e in relazioni che sfumano.

L’influenza di gruppi come Kino e Grazhdanskaya Oborona, colonne della scena underground URSS negli anni Ottanta, si avverte nei testi asciutti e diretti, dove si affollano immagini grigie, stati d’animo in sospensione, notti insonni e stazioni dimenticate. Ma accanto a quella matrice culturale, i Molchat Doma hanno assorbito il senso estetico e musicale dell’occidente più malinconico. Le linee di basso cupe, i synth taglienti e le ritmiche secche ricordano i Joy Division, soprattutto nell’uso della voce come strumento distante, quasi anaffettivo. Dall’altra parte, l’orecchio va come già detto anche ai Depeche Mode dei primi anni Novanta, alle loro costruzioni melodiche tese e sensuali, ma rese qui più spigolose, più meccaniche.

La lingua bielorussa aggiunge una distanza ulteriore. Non è solo una scelta identitaria: è parte integrante della poetica del gruppo. Le parole, anche quando non comprese, diventano suono, vibrazione. E in quel suono c’è una rassegnazione senza rabbia, un’amarezza quieta che non cerca riscatto.

Le liriche parlano spesso di solitudine, ma non nel senso romantico del termine. È una solitudine grigia, urbana, fatta di stanze vuote e pensieri che si ripetono. In alcune canzoni si avverte un richiamo alla vita quotidiana sovietica e post-sovietica, con tutte le sue contraddizioni: il crollo delle ideologie, l’indifferenza, il tempo che si dilata.

Ci sono anche riferimenti espliciti a figure marginali, a chi vive al bordo delle cose. Судно (Борис Рыжий), che ha dato inizio alla loro notorietà internazionale, prende il titolo da una poesia del poeta russo Boris Ryzhy, morto suicida a ventisei anni. Non è un caso. La scelta di omaggiare Ryzhy, poeta della provincia, degli esclusi e dei disillusi, racconta molto dell’immaginario dei Molchat Doma: il mondo che interessa loro è quello che si muove in silenzio, che non ha voce, che resiste nell’ombra.

Boris Ryžij
Boris Ryžij

Eppure, dentro quella cupezza c’è sempre qualcosa che pulsa. Una linea melodica, un’accelerazione improvvisa, un synth che esplode. È come se nella musica dei Molchat Doma ci fosse sempre la possibilità di una fuga, anche se incerta. I testi non offrono soluzioni, non lasciano spiragli. Ma nel modo in cui vengono cantati, e soprattutto nel modo in cui vengono suonati, c’è un’energia sotterranea. Un desiderio che non si può nominare, ma che continua a premere sotto la superficie.

Dal vivo, la loro musica ha rivelato una doppia natura. Da un lato l’istinto del ballo, dell’EBM anni Novanta che scuote il corpo. Dall’altro, una malinconia sottile, che si infila sotto pelle e resta lì. Si è danzato, ma con gli occhi chiusi. Si è cantato, ma senza forzare la voce.

I Molchat Doma non hanno cercato l’applauso facile e la loro musica si è infilata nelle pieghe della notte romana senza fare rumore, perché certe atmosfere, una volta respirate, tornano a farsi sentire nei momenti più improbabili.