Milano vs. The Wildhearts, bentornato Ginger
Il miglior regalo di Natale per i fan di Ginger Wildheart e della sua splendida creatura musicale
Legend Club non sold out ma carico di sincero entusiasmo saluta il ritorno in Italia di The Wildhearts
Milano, 15 dicembre 2024
Non avete minimamente idea dell’entusiasmo che ho provato quando è arrivato l’annuncio di questa unica (e largamente inaspettata) data italiana di quella splendida creatura R’n’R che sono i The Wildhearts. Nutro per Ginger Wildheart, il loro carismatico leader, un amore musicale che ha oramai abbondantemente oltrepassato il traguardo dei trent’anni, e che ha posto la sua band in uno dei tre vertici di quella che per me è la perfetta triade dello sleaze rock di matrice albionica, insieme ai Quireboys di Spike Gray e ai Dogs D’Amour di Tyla J. Pallas.
Tre differenti facciate di una stessa medaglia, tre underdogs, tre magnifici perdenti che per il sottoscritto hanno rappresentato (e rappresentano tutt’ora) l’essenza stessa del rock’n’roll. Spike ed i Quireboys sono gli eredi naturali degli Stones, dei Faces e dei Mott The Hoople, con quel graffiato marinato in anni ed anni di nicotina e whisky e quello spirito honky tonk che tipicamente aleggia nei pub dei sobborghi di Londra.
Tyla è una sorta di Charles Bukowski del rock’n’roll, un crooner dello sleaze perennemente circondato da quell’aura bohémienne ed autodistruttiva, che lo segue come la famosa nuvola temporalesca segue il Rag. Fantozzi. Che se Tom Waits lo incontrasse di notte in un vicolo della Londra più sordida, scapperebbe a gambe levate. I suoi Dogs D’Amour, dopo aver incendiato le serate di Soho e al Marquee negli anni ’80, si sono dissolti come l’eroina nel succo di limone, e il paragone qui è tutt’altro che causale. Sono diventati oggetti di culto, i Dogs D’Amour.
Tyla è ancora (abbastanza inspiegabilmente) tra noi, a cullarci con le sue melanconiche ballate alcoliche, sempre ai confini tra il romantico ed il depressivo, cantore di vizi (tanti) e virtù (poche, ma ben solide) di piccoli eroi sotterranei di un mondo che non più. Lo chiamano il poeta antiproiettile, come il titolo di uno dei suoi brani più noti.
E poi c’è Ginger, genio e sregolatezza, a mio umile giudizio uno dei più grandi song-writer mai partoriti dal Regno Unito. In questa triade rappresenta il genio e la follia, ed anche in questo caso l’accostamento non è casuale, alla luce dei problemi mentali che a fasi alterne ne hanno minato la carriera.
Ginger è l’essenza punk di questa triade, un’essenza smussata da una sensibilità power-pop che gli consente di mettere insieme riff micidiali, ritornelli di rara efficacia e melodie assassine, di quelle che ti si intrufolano nel cervello e non se ne vogliono più andare. Come se nella stessa band convivessero i Metallica, i Sex Pistols e i Cheap Trick. Chissà, probabilmente senza quei disturbi mentali Ginger non sarebbe diventato il Ginger che conosciamo ed amiamo. E il mondo sarebbe davvero un posto più triste.
L’ironia vuole che i tre vertici di questa triade siano in qualche modo interconnessi tra loro. Ginger, infatti, faceva parte dei Queerboys, prontamente ribattezzati Quireboys, con i quali incise il primo singolo della band, quella ‘Mayfair’ sulla cui copertina spiccava un giovanissimo Ginger al fianco di Spike.
Non è durato molto Ginger nei Quireboys. Fu subito licenziato, e da quel licenziamento nacque l’idea di una nuova band, in compagnia dello storico partner C.J. e di Bam, che era il batterista – indovinate un po’ – proprio dei Dogs D’Amour. Poi ditemi che quella cosa dei sei gradi di separazione non è vera.
Tutti questo per dire quanta rilevanza nella mia giovinezza musicale abbiano avuto, ciascuno per quanto di competenza, questi tre rock and roll survivors nel mantenere vivo il mio amore per il rock’n’roll più puro ed incontaminato. E per farvi capire con quanta impazienza ho atteso questa serata. Una serata che fin dall’annuncio nascondeva un interrogativo, visti i precedenti due passaggi in Italia di Ginger e soci. O meglio, i non passaggi, con il tour degli Hey! Hello! (uno dei suoi schizoidi progetti estemporanei) ed il successivo dei Wildhearts annullati all’ultimo momento, per le solite questioni legate alla sua salute mentale.
Verrà davvero? Suonerà? Prima del Covid, durante un viaggio in Irlanda, mi era capitata a tiro una sua data solista al famoso (o famigerato) Diamond Club di Ballymena – vuoi perdere l’occasione? No, per lo meno non di mia sponte. Peccato sia andato subito fuori di testa, abbia litigato con uno dei presenti, gli abbia tirato una zuccata in faccia e sia fuggito nella notte. Risultato, arresto e ricovero in clinica specializzata. Incrociamo le dita per stasera.
Tra una birretta ed una chiacchiera con amici e conoscenti arrivano finalmente le 21:30. Quasi stupito, mentre si spengono le luci tra me e me sussurro uno speranzoso «dai che questa volta li vediamo davvero». Sul palco del Legend Club salgono il batterista Pontus Snibb (Bonafide/Jason & the Scorchers), il bassista Jon Poole (Cardiacs / Lifesigns) e il nuovo chitarrista Ben Marsden, chiamato all’ingrato compito di non far rimpiangere CJ. A sgombrare il campo dagli ultimi dubbi, ecco finalmente palesarsi anche Ginger, ed è subito caricanza con una micidiale ‘Suckerpunch’, seguita a ruota da ‘I Wanna Go Where The People Go’, con il chorus cantato a gran voce dal pubblico, non esattamente numeroso ma sicuramente bello rumoroso e partecipe.
Ginger è in splendida forma questa sera. Sereno, rilassato, sobrio, sul pezzo. Persino ciarliero. Uno dei Ginger più presenti ed efficaci che abbia mai avuto modo di vedere in sede live. Sarà un grande show.
In scaletta troviamo un ottimo compromesso tra vecchi classici e materiale più recente, ma a marzo uscirà il nuovo album, “Stanic Rites Of The Wildhearts” e questa sera Ginger ce ne farà ascoltare un’anticipazione con ben tre brani. Si tratta del singolone appena rilasciato ‘Failure Is The Mother Of Success’, ‘Mantain Radio Silence’ e quella che Ginger stesso definisce la sua preferita, ‘Eventually’. Difficile giudicare, ma la prima impressione è assolutamente positiva e fa ben sperare per la riuscita di questo nuovo disco.
Anche il debut album ‘Earth Vs. The Wildhearts’ (un vero capolavoro, non c’è un pezzo brutto su quel disco) viene ben rappresentato, e oltre alla già citata ‘Suckerpunch’ possiamo godere come ricci con una riuscitissima ‘Everlone’, ma soprattutto con il micidiale uno-due che quasi in chiusura di concerto mette in fila l’inno ‘Greetings From Shitsville’ e quello spettacolo di pezzo che è ‘My Baby Is A Headfuck’.
Tra gli highlight della serata non possiamo non citare la classicissima e storica ‘Caffeine Bomb’ ma, perché no, anche gli estratti da un disco tutto sommato ingiustamente sottovalutato come “Chutzpah!”, con la title-track, e due brani solidi come ‘The Jackson Whites’ e ‘Mazel Tov Cocktail’. Nel finale ci scappa pure una graditissima ’29 X The Pain’, con cui si chiude un concerto tiratissimo ed entusiasmante, il cui unico neo, più che altro per chi come il sottoscritto nutre una vera e propria venerazione per questi veterani della scena britannica, e l’assenza ingiustificata di ‘Geordie In Wonderland’ e di almeno un altro paio di brani dal mitico debut (chi ha detto ‘Loveshit’ e ‘TV Tan’?).
Si ringrazia caldamente eRocks Production per l’ospitalità, ma soprattutto per il coraggio – tutt’altro che scontato – di aver riportato finalmente in Italia una band tutto sommato rischiosa, non popolarissima ed ampiamente sottovalutata come i Wildhearts.
Nel 2025 avremo un nuovo album ed un nuovo tour, e noi vogliamo assolutamente rivederli spaccare tutto, come hanno spaccato tutto questa sera.