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Marta Del Grandi

Marta Del Grandi: la musica italiana come non l’avete mai sentita

A quattordici mesi dalla prima esibizione, il ritorno a Roma dell’artista milanese con il “Selva Winter Tour 2025”

Roma, 1 Febbraio 2025

Prima del concerto di Marta Del Grandi penso a Roger Waters. Il bassista dei Pink Floyd durante le registrazioni di “The Dark Side of the Moon” si accorse che «le persone che hanno le cose più interessanti da dire sono quelle che nessuno intervista mai». Così come i concerti più belli e appaganti sono quelli ai quali le masse non andranno mai. Non solo per l’attenzione all’ascolto e il focus sulla musica, ma anche per relazione senza filtri e intermediari tra artista e pubblico. Situazioni in cui si annulla la separazione tra palco e platea e ci si guarda negli occhi tra occupanti del primo e della seconda.

Stasera è così al Monk fin dall’apertura di Adult Matters, progetto cantautorale di Luigi Bussotti. Proviene da Viterbo, con un folk venato da atmosfere intime e lunari. Chitarra e voce, bella scrittura. Il mood e le sonorità sono un po’ alla Nick Drake. Scoprirò solo a casa che effettivamente pesca la sua ispirazione in quel mondo cantautorale che. Lo preferisco nei momenti più introspettivi, paga probabilmente l’emozione quando aumenta l’intensità e il volume della voce. “A Modern Witch” sarà il suo primo disco, uscirà il 21 febbraio. E che se le lasci andare, le cose trovano da sole il loro ordine e la loro armonia, lo conferma il fatto che è lo stesso giorno del compleanno di Marta Del Grandi.

Adult Matters

I “concerti presto” del Monk, sono un lodevole tentativo di instillare abitudini anglosassoni ed europee in un pubblico, quello romano, tradizionalmente portato ad uscite a tarda ora. Marta Del grandi non è nuova agli orari insoliti, giacché il suo primo concerto romano si tenne a mezzogiorno di una domenica di fine novembre 2023. Al pubblico che la scoprì allora, presente anche stasera in prima fila, si aggiungono nuovi fan e persone curiose di conoscerne la musica. Il “Selva Winter Tour”, dal nome del suo più recente album, si sta avviando alla conclusione e molti di noi stasera sono qui per chiudere un cerchio.

Quando la cantautrice nata ad Abbiategrasso appare sul palco, i meno attenti alle sue storie Instagram scoprono una novità nella formazione: con un perfetto tuffo carpiato Alessandro Cau sostituisce alla batteria lo storico Gabriele Segantini. Ad occuparsi del violino e dell’elettronica invece è sempre Vito Gatto, mentre Marco Fortunati è appostato dietro al banco dei suoni a far partire le sequenze di basso.

Uniformare le conoscenze è una buona pratica di chi si trova a dover scrivere o presentare qualcosa o qualcuno. Il percorso artistico di Marta Del Grandi è piuttosto articolato e non comune per essere un’artista dello Stivale. Si avvicina al jazz quasi per gioco, che nel giro di qualche anno diventa serio. Prima la Civica Scuola di Milano, poi una borsa di studio al conservatorio di Gent. Poi molto altro ancora. Qualche dettaglio in più su questo “molto altro” lo trovate qui

Marta Del Grandi
Marta Del Grandi – Foto di Cecilia Fornari

L’imprinting del jazz lo riconosci nella estrema cura delle dinamiche e nell’approccio al suono. La pulizia della chitarra, calda e piena grazie anche alla resa del Vox Ac30 che, bello come il sole, troneggia sul palco. L’uso melodico, prima ancora che ritmico, della batteria, suonata con i mallet che conferiscono grande varietà timbrica. I voli imprevedibili e le ascese velocissime del violino, una vocalità mai di maniera, che evita qualsiasi tecnicismo fine a sé stesso.

Anche perché per stupire, ipnotizzare, avvolgere le è sufficiente la poetica bellezza delle sue canzoni. Fin dall’apertura, quando dispiega le ali della voce nel finale di ‘Two Halves’. Il registro alto che fa vibrare il mio diaframma come fosse un diapason. ‘Chameleon Eyes’, invece, inizia con un incedere del basso sixties, mood alla Lætitia Sadier degli Stereolab, e mi conduce per mano alla canzone che, per il mio gusto, rappresenta un capolavoro senza se e ma.

Frozen in a picture Where your eyes look just like mine
Do you remember?
When you told me I was too invested and I fed on love  

Like it was a bad thing
But if not for love
Then what is it we live for?

‘Mata Hari’  potrebbe essere benissimo scambiato per una canzone a firma di Franco Battiato. Voce ammonitrice e supplichevole al tempo stesso, messa in risalto da una cornice elettronica, tappeto ossessivo sul quale il violino descrive la traduzione in suono di segni di Mirò. Melodia splendida che sfuma in una parte sperimentale di dialogo tra frammenti di voce e percussioni, preludio di resurrezione finale e luminosa.

Marta Del Grandi
Marta Del Grandi – Foto di Valentina Sommariva

Ma l’energia diventa anche sensuale e carnale. ‘Snapdragon’ è una celebrazione di divinità della natura. Loop station nell’intro, batteria con cassa dritta e ritmiche tribali su timpano e tom. Voce nuovamente su registri altissimi e danza liberatoria. Jazz e dream pop, in una sintesi che rimanda vibrazioni che riportano a territori e lande confinanti con quelle percorse in passato da una certa Elizabet Fraser. Sempre loop station e armonizzazioni melodiche protagoniste nell’apertura di ‘Selva’, a oggi, è unico suo pezzo in lingua italiana. Anche se proprio nella sua intro ritrovo echi del suo soggiorno in India e Nepal.

Marta Del Grandi

Di tanto in tanto mi sorprendo a immaginare quale sarebbe stata la parabola artistica di Marta Del Grandi se non avesse allargato i suoi orizzonti ben oltre i nostri confini. Rifletto sul destino dei talenti del nostro paese, imprigionati in locali finto-jazz, davanti a un pubblico assorbito completamente da cibo e vino; o nelle trappole dei talent, in tormentoni in cui non si capisce chi bacia chi; o a scendere da una scalinata per poi infuriarsi per la mancata vittoria in un festival a caso. Ma questi pensieri durano lo spazio di pochi secondi, perché è il tempo delle sue due ospiti di stasera

Vera Di Lecce, già nei Nidi D’Arac, è protagonista con lei di ‘Altar of Love’ brano oscuro e rituale dell’artista salentina. Chitarra elettrica con e-bow ed effetto delay, contrasto timbrico tra le due voci; contralto e profonda una, soprano e cristallina l’altra. Invece, con Valentina Polinori esegue ‘Ci Crederesti’, pezzo con taglio più cantautorale scritto dalla cantautrice romana. Tra questi due momenti prende forma una versione a tre voci di ‘Lullaby Firefly’, estratta da “Until We Fossilize”, il suo primo lavoro solista. Due chitarre elettriche, una chitarra acustica e un silenzio irreale nella sala del Monk, rapita dalla magia del pezzo.

 

‘Stay’ potrebbe figurare perfettamente in un musical, di quelli in programma a Broadway, e prima di tornare in hotel chiami un taxi per andare alla Grand Central Station a baciarti nel grande atrio con la persona che ami. ‘Totally Fine’ ha andamento latino e seduttivo, mentre ‘Somebody New’ si caratterizza per i diversi colori dei riverberi, l’unica manifesta concessione all’effettistica per la sua chitarra.

Per il bis tiene da parte ‘Marble Season’, scritta in Nepal, catarsi di un momento di crisi, come da lei raccontato in passato. Quando la vita ci si rivolta contro è il momento di chiamare a raccolta la musica. Una pausa dal mondo, un ripiegamento su sé stessi per ritrovare la luce interiore che illumini ciò che ci circonda. Un chakra che si sblocca, una connessione che torna a ristabilirsi tra universo interno ed esterno. È la musica di Marta Del Grandi, nulla di più, nulla di meno.

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