
Mark Guiliana: il fascino dell’ambiguità
Le sperimentazioni di Mark Guiliana fanno discutere il Monk
Lo stato maggiore dei batteristi romani al concerto dell’eclettico batterista del New Jersey
Roma, 6 Maggio 2025 | Ph. © Giulio Paravani
Mi aspettavo meno persone ad ascoltare Mark Guiliana, tra i batteristi più quotati che vanno girando e da più di un decennio sotto la ribalta dei riflettori della scena musicale mondiale. Collaborazioni che spaziano dal jazz, al rock, all’elettronica, alla musica sperimentale, al pop, all’hip hop e qualcosa mi scordo anche. Inconfondibile, a detta di chi ne sa, la sua batteria nell’intero “Blackstar”, il capolavoro finale di David Bowie. Incrociò anche la strada di Jovanotti, in “Lorenzo 2015 CC”, condividendo seggiolino e pelli con un certo Omar Hakim
Stasera si è mossa gran parte della scena jazz, e non solo, di Roma. La parte del leone la fanno, preventivabile, i batteristi. Ci sono tutti, o quasi, dai più sperimentali e d’avanguardia, a quelli che ormai fermano in strada per i selfie, complici note trasmissioni televisive del venerdì sera. Aggiungiamoci gli appassionati, i curiosi e qualche faccia delle solite, tipo la mia. Ma il numero che mi colpisce non è tanto quello relativo all’affluenza, quanto all’età dei presenti: diversi giovani sotto i 30 anni e buona rappresentanza femminile. C’è vita oltre i sindacati.
Apro parentesi importante, proverò a farla semplice. Sensazione e percezione sono due processi temporalmente contigui ma profondamente diversi. Il primo è la risposta fisiologica dei recettori sensoriali a qualsiasi stimolo che supera la loro soglia di sensibilità e da cui origina un impulso nervoso. La seconda è invece il modo con cui le nostre aree cognitive di ordine superiore ne organizzano la rappresentazione, l’interpretazione e la valutazione finale. In virtù di questo, l’atto percettivo comporta sempre una modificazione soggettiva dello stimolo esterno. Nel processo intervengono una serie di filtri che possono essere di tipo fisico, individuale e socioculturale.
Senza approfondire troppo, è sufficiente sapere che il significato che attribuiamo a uno stimolo è sempre il risultato di molteplici fattori che dipendono esclusivamente da noi. il punto di vista fisico, la funzionalità dei nostri sensi, la nostra esperienza passata, le aspettative, la nostra cultura, il nostro stato emotivo, le nostre opinioni, valori e idee . Davanti a uno stesso stimolo, non esistono sulla faccia della terra due persone che ne avranno stessa rappresentazione, stessa interpretazione e stessa valutazione. Ancora più sinteticamente: davanti a uno stesso stimolo, due persone vedranno, ascolteranno, toccheranno, annuseranno e gusteranno cose diverse.
L’azione e gli effetti di questi filtri sono particolarmente evidenti nelle situazioni di ambiguità percettiva. Davanti a stimoli poco definiti, volontariamente o meno, quanto scritto nel precedente paragrafo, vale ancora di più. Ed è esattamente quello che accade durante e al termine del concerto di Mark Guiliana al Monk.
Commetto l’errore imperdonabile (sapevo che non avrei dovuto farlo) di fermarmi a scambiare opinioni e sensaz… pardon, percezioni, con alcuni convenuti; appassionati, esperti e musicisti. E i giudizi sono polarizzati e contrastanti. Entusiasmo, sorpresa, approvazione si affiancano a stroncature categoriche e senza appello. Chi ipnotizzato, o semplicemente ispirato, dalla performance dell’artista statunitense, chi invece attirato dopo mezz’ora dalle sedie del cortile del Monk e sedotto dalla piacevole temperatura, presagio dell’estate prossima a venire.
Perché la performance di Mark Guiliana è carica di ambiguità. Cos’è? Una provocazione irriverente? La traduzione in suono di un personale dialogo interno? Il tentativo di dar forma a un disagio? Il seguire il suo estro artistico senza preoccuparsi delle reazioni del pubblico? Esperimenti di libera improvvisazione? Un tentativo di definire nuove dimensioni e nuovi linguaggi per la musica percussiva? Una raffazzonata accozzaglia di situazioni sonore caotiche e senza capo né coda? Il riproporre cose già fatte mezzo secolo orsono? Una dimostrazione di padronanza tecnica ed energetica anche in assenza di virtuosismi “coatti”?
O, semplicemente, il tentativo di lasciarci lì, appesi a un filo, nel vuoto, senza fornire indicazioni sul come usufruire e cosa fare con la sua musica. Senza spiegazioni o caratterizzazioni di alcunché. Ti aspetti succeda qualcosa che invece non avviene. È uno stato di tensione irrisolta, oppure di noia. Quale delle due? Forse entrambe, dipende dai filtri percettivi individuali in azione. Certo è che raramente mi è capitato di percepire un silenzio così intenso e carico di tensione durante un live. Era proprio questo ciò che Marc Guiliana voleva? Mettere alla prova le capacità individuali di tolleranza dell’ambiguità e dell’ansia?
«È stato come un quadro di Mark Rothko. Come fai a spiegare un quadro di Rothko?».
Una chiave di lettura me la fornisce uno dei batteristi accorsi stasera. Il live gli è piaciuto. Lo ha trovato stimolante, sebbene sia giunto al concerto con aspettative molto basse. Come davanti alle opere d’arte contemporanea, davanti a Mark Guiliana si tratta di abbandonare le normali categorie percettive di riferimento normalmente utilizzate per stabilire la nostra valutazione di un’opera. Sospendere ogni giudizio, per concentrarci sul libero e incensurato fluire di sensazioni, immagini ed emozioni e sorprenderci di noi stessi.
Magari è ancora più facile: si tratta di spostare fisicamente il punto di vista. È ciò che faccio dopo i primi cinque minuti. Perché ho da subito la sensazione che per poter comprendere e ascoltare questo concerto non si possa prescindere dalla visione, chiara e nitida, dello stesso Mark Guiliana alle prese con gli strumenti sul palco. Forse per questo il tour è stato originariamente pensato per i teatri. Mi perdo gran parte dei visual sullo sfondo del palco, ma non importa. Sono dimenticabili e non voglio vedere loro. Voglio vedere lui.
Un piano elettrico, due batterie; fioretto e clava una centrale jazz e una di lato, per le sonorità più rock. Ai lati della prima, sul pavimento del palco, due postazioni con crotali e oggetti in legno di artigianato afro da usare come strumenti percussivi. Completano l’allestimento seed shell shaker di diversa forma e colore, un computer e un videowall sul quale scorrono immagini di vita quotidiana delle quali si è già detto. In terra, alcune bottiglie d’acqua e bicchieri che hanno tutta l’aria di contenere del gin tonic; bevuti in alternanza, niente percussioni
Allestimento normale per un concerto, se non fosse che Mark Guiliana è senza band. I pezzi sono estratti dal suo ultimo disco chiamato “Mark”, e questo tour è il primo in cui sale sul palco da solo. Passa da uno strumento all’altro, ripiegato sulle batterie o su sé stesso per suonare i crotali e gli oggetti che giacciono sul palco. Osservo la sua postura e i suoi spostamenti sul palco, percorrendo linee d’energia, immaginarie o reali chissà. A volte si arresta improvvisamente. Sembra cercare qualcosa, una vibrazione, una risonanza, un suono; o semplicemente una pace che non trova. Si siede al piano come farebbe un fedele in preghiera davanti al proprio Dio. A volte geme, e si lamenta, non so se per disappunto e disagio verso il pubblico o verso sé stesso.
Mrc Guiliana va avanti così, per quasi un’ora e mezza. Tra interludi elettronici, parti scomposte di batteria jazz, afro e latine, melodie accennate al piano, tappeti che vanno da sonorità elettroniche alle telecronache di baseball. Seguendo il suo flusso energetico in quella che sembra a tutti gli effetti una libera improvvisazione. Non è un concerto facile, non è un concerto che definiresti “bello”, ma credo di averlo già detto.
Con i ringraziamenti per la qualità dell’ascolto e i saluti, arriva la richiesta di contribuire a creare il suono del pezzo di addio. Mark Guiliana lancia una decina o poco più di shaker tra il pubblico e invita ad agitarli. Inizia sul piano, chiude alla batteria. A essere scossi non sono solo gli shaker ed è cosa interessante. Finisce che nessuno capisce più molto, bene così. Avrà esaltato alcuni, avrà infastidito altri, sicuramente ha agito sullo stato energetico delle persone. Esco dalla sala concerto, nelle casse il reggae di King Tubby che rifà un classicissimo. Io mi sento meglio di quando sono entrato. Segno che il concerto mi è piaciuto. Si era già capito?