Mammút live a Milano: buia passione nordica

Una serata intima quella del 29 ottobre al Serraglio di Milano, quasi tra amici, una tranquilla domenica sera con due chiacchiere, un paio di birre e un concerto dei Mammút. Band islandese a trazione femminile, una carriera di più di 15 anni alle spalle e quattro dischi all’attivo, l’ultimo dei quali intitolato “Kinder versions” uscito a luglio di quest’anno, i Mammút incrociano diversi generi e non mettono grossi paletti alle loro ispirazioni musicali, con una composta estrosità di chiaro stampo nordico.

Sempre dal Nordeuropa arriva anche il gruppo spalla, i norvegesi Broen. Suonano mascherati e con un look colorato, imbracciano svariati strumenti, dal trombone al tamburello, e giocano con melodie un po’ indefinite, a volte free jazz, a volte lounge, a metà tra la follia scandinava e le crisi di identità. Fanno anche elettronica rappata, o rap elettrificato che dir si voglia, e quando arriviamo in fondo appare chiaro che in realtà il suono dei Broen è patinato e ricercato e per niente casuale.

Dal colore al nero: i Mammút si presentano con un look molto goth, in un quasi total black d’ordinanza. Sin dall’attacco di ‘Breathe into me’ l’assonanza è chiara ma il paragone tutto islandese è quasi banale: su una struttura di suoni semplici e puliti, la voce di Katrína Mogensen rimanda a mostri sacri del trip-hop, un po’ Beth Gibbons dei Portishead e un po’ Björk. La presenza scenica è il risultato della contrapposizione tra il dinamismo tarantolato della cantante e la quieta semi-staticità del resto dei Mammút, e un discorso analogo potrebbe valere per l’andatura divergente tra voce e musica.

Un suono pieno per i Mammút, che non manca di nulla pur non andando mai oltre le righe, talvolta sale di intensità senza aumentare la velocità.  Questi crescendo si fanno via via più frequenti, spingendo la voce di Kata a prendere tonalità ancora più alte. L’impiego di effetti è relativamente basso, quel che basta per creare atmosfere ovattate sui pezzi più lenti, i riff di chitarra sono semplici ma ben inseriti nel contesto, il tutto con un’interazione col pubblico che è al di sotto del minimo sindacale.

Il momento-cover viene smarcato dai Mammút con una versione soft-core di ’Believe’ di Cher, che si carica di riverberi nel finale e che potrebbe benissimo essere uscita dal finale di una puntata di Twin Peaks versione 2017, forse anche per merito di un contesto che rimanda al Bang Bang Bar tanto caro a David Lynch. Il finale di set con ‘Kinder versions’ è bello carico, con le chitarre a livello e la voce che ne esce valorizzata.

Il rientro dei Mammút per il bis ha le tinte fosche e dark dell’inizio, ma ‘We tried love’ si chiude in stile ballatona, con il gruppo islandese che si mostra carico di sentimento sotto la scorza nordica. I Mammút si addicono bene alle atmosfere cupe, perdendo qualcosa quando divagano su un mezzo pop vibrato. Rivedendo un po’ gli equilibri, inserendo una drum machine e un synth, il risultato sarebbe forse più omogeneo e bilanciato, e risalterebbero alcune peculiarità che in fondo non mancano. Ma per una domenica sera tra amici, con la voce di Kata e il suono dei Mammút ci possiamo ritenere ampiamente soddisfatti.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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