Incursioni percussive e fingerpicking: Pat Metheny Unity Group live a Roma

Mentre mi dirigo verso la sala Santa Cecilia, venti minuti prima delle nove, dove sta per avere luogo il concerto del Pat Metheny Unity Group, ho la sensazione di essere in pellegrinaggio.

Le frasi solenni in blu elettrico, affisse in alto nei corridoi dell’Auditorium e ispirate all’universo musicale, che scandiscono il mio percorso, non fanno altro che accentuare questa sensazione di solennità e timore reverenziale: mi vorrei fare ancora più piccola di quella che sono.
Faccio il mio ingresso in sala, e a conferma dei suddetti presagi la scena è di religiosa anticipazione e pura adorazione.
Molte persone sono assiepate davanti al palco magnificamente allestito, in attesa che inizi il grande evento: sbirciano, scattano foto o semplicemente sono in pre-adorazione.
Qualcuno accanto a me mormora “Dai, Pat”, un’invocazione sussurrata, una rispettosa esortazione al dio della chitarra a fare la sua apparizione.
Alle 21:15 un applauso avverte che l’apparizione avrà finalmente luogo.
L’annuncio di rito a non scattare foto, girare video o usare i cellulari in alcun modo, vista “la particolarità dell’evento”, ammonisce ancora una volta che stiamo per entrare in un’altra dimensione.
Ed ecco Pat.

Sono cambiate molte cose ma non la sua maglietta a righe (stavolta) sottili bianche e rosse, né la massa di capelli lanosi, entrambi sfoggiati con navigata disinvoltura.
L’avvio di concerto è solo apparentemente in sordina: Pat imbraccia la famosa chitarra Pikasso (ideata insieme a Linda Manzer), con ben quattro set di corde, e le note iniziano ad arrivare come da uno spazio remoto e da un tempo antico.
Suoni che ricordano quelli di un’arpa invadono la sala: la musica delle sfere ci avvolge, finché la celestialità di questa apertura vira verso lidi più sperimentali, con ampie incursioni percussive fingerpicking.
L’applauso del pubblico arriva convinto.
Si riaccendono brevemente le luci, di nuovo buio: il resto del Pat Metheny Unity Group fa il suo ingresso.
Senza soluzione di continuità le note del sax di Chris Potter si innestano su quelle di chitarra, contrabbasso (Ben Williams) e batteria (Antonio Sanchez): lo show è iniziato, e Metheny passa alla semiacustica (che alternerà a un’ovation e all’Ibanez dedicata ai suoni tipicamente synth).
Questa prima parte di concerto, incentrata su cinque brani della Unity Band (tra cui Come and See e Roofdogs) è una lunga spettacolare session nella quale i quattro si alternano alle improvvisazioni, rigorosamente seguite dagli applausi del pubblico ben avvezzo ed educato all’etichetta del jazz: io vorrei fare head banging, invece, ma, a giudicare dalla compostezza del pubblico, trattasi di pessima idea – quindi mi limito a battere incessantemente il piede e a stringere i denti per soffocare grida di approvazione.
Mi colpisce in particolar modo il solo di contrabbasso di Ben Williams (un concentrato di sensualità afroamericana), che sembra però non essere pienamente compreso dal pubblico, come spesso accade per le improvvisazioni su questo strumento. Metheny corre come un ossesso stuprando la chitarra e non è da meno Chris Potter col sax soprano e, sul secondo brano, i quattro ci regalano un finale delirante e free.
Dopo un momentaneo raccoglimento segnato dal terzo brano, arriva un uptime caratterizzato da unisoni, con al centro un enciclopedico solo di batteria acclamato e graditissimo dal pubblico.
Il concerto prosegue con i brani di Kin (uscita discografica del 2014 per il Pat Metheny Unity Group) ed esattamente con la title track, per l’esecuzione della quale e a completamento della line-up, si aggiunge il polistrumentista Giulio Carmassi, che fatichiamo però a intravedere essendo posizionato nelle retrovie del palco.
Come avverte Metheny stesso, che prende la parola prima di questo inizio di seconda parte, i brani che seguiranno portano il segno di un modo di comporre diverso.
La scrittura di Kin è certamente più tesa, cupa e inquieta, un viaggio di un sapore diverso, in cui fanno la comparsa immagini acceleratissime su un piccolo schermo installato dietro Giulio Carmassi, contrabbasso suonato con archetto, cambi di strumento velocissimi per altrettante variazioni di mood.
Al centro campeggia la meravigliosa Born, che parla un linguaggio di nuovo “commestibile” e comprensibile ai più, seguita come in una legge del contrappasso da uno sperimentalismo ancora più acceso con punte noise e free.
Siamo arrivati al gran finale di questa seconda parte, segnato dall’incipit di una clave di batteria con la quale i cinque strumentisti cercano di ingaggiare il pubblico in un clap poliritmico, decisamente ostico a noi italiani, che al massimo riusciamo a vocalizzare Seven Nation Army allo stadio non sapendo nemmeno chi è Jack White: esperimento decisamente fallito. Seguono una serie di duetti-duelli, tra i quali colpiscono quello con Chris Potter per l’incessante e frenetico susseguirsi di cascate di note sputate fuori come proiettili letali (quasi un agone musicale) e lo sperimentale scambio con Antonio Sanchez, la cosa più vicina al rock suonata questa sera, nel quale Metheny aggiunge una distorsione all’ovation.

Sono le 23:27 e la band abbandona il palco, per rientrare poco dopo e dare luogo al primo bis, che è il momento più coinvolgente di questa eccezionale performance: arrivano le note cadenzate di Are you going with me?, anche se l’inizio suona strano, anche se l’intervento di Chris Potter sulla prima parte con flauto traverso toglie inevitabilmente calore all’esecuzione, perché troppo etereo e algido, anche se – per dirla in breve – non siamo di fronte al Pat Metheny Group il godimento è assicurato e rasenta la commozione.
Arriva anche un secondo bis nel quale, come a chiusura di un cerchio ideale, ritroviamo Metheny solo con la sua chitarra a regalarci un lungo medley di brani del passato, tra i quali Last Train Home.
Sono le 23:50 quando le ultime note si spengono e capiamo che è terminato un concerto imperdibile, nel corso del quale abbiamo assistito alla performance di un grande artista capace di versatilità e poliedricità veramente rare nonché di emozionare facendo al contempo sfoggio di una tecnica incommensurabile.

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Roberta Cacciapuoti

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Insegnante di lettere per vocazione di studi, fotografa musicale per passione. Ogni concerto è un universo a sé stante e per questo ogni fotografia che ne scaturisce è un racconto a sé, narrazione per frammenti, pezzo di un mosaico dove luci, ombre, colori si fondono a creare un tutto organico e denso.

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