Ballad folk e indie rock: L’Orso live a Roma
Una seratina piacevole quella del 18 luglio, verrebbe da commentare: il clima piacevole delle estati romane, le bancarelle, il tiro a segno.
I chioschi dove puoi mangiare di tutto e molto bene, il Roma Vintage pieno di famiglie che ridono.
Alternarsi di bande di ottoni che vagano per le viuzzole dell’ex aereoporto.
Anche io avrei voluto commentare così.
Ma cominciamo dal principio: ho fame, ho scordato i soldi a casa e sono in ritardo.
Sono in ritardo perchéavevo dimenticato che suonava Mattia, e per questo uscendo di casa ho scordato di prendere il portafoglio.
Uscendo di corsa, non ho letto su internet che l’Atac aveva cancellato l’unico mezzo che conoscevo per arrivare all’Airport One (la rassegna di musica dal vivo più interessante del Roma Vintage curata dai ragazzi dell’Init).
Il fatto che ho fame è una costante della mia vita – non c’entra niente che sono rimbambito.
Però ci tengo, ci tengo fortissimo a vedere Mattia.
Dice, «chi è Mattia?»
Mattia è il cantante, mente e comunicatore de L’Orso.
Lo vidi la prima volta a San Lorenzo, in una rassegna di musica indipendente curata da una web radio.
Ero all’università. Ricordo che si presentò con un berretto che era il frutto di una notte d’amore tra un peluche ed un colbacco.
E delle canzoni da abbraccio bellissime, sincerissime, che non avevano paura di essere sdolcinate…e pervase da quell’autoironia che iniziava ad andare di moda ma che io ho sempre apprezzato.
Scrissi anche un commento per il giornale dell’università per il quale lavoricchiavo.
Diceva: «Date a tutti quelli che ascoltano Le Luci della Centrale Elettrica l’EP de L’Orso e gli salverete la vita.»
Con Mattia ho avuto poi rari contatti, per lo più telematici, ma ho sempre cercato di seguirne il telefonatissimo successo con passione: l’etichetta con cui lavora, le sue opinioni sul calcio, sul rap…è una persona che, in questa magia del non luogo che è internet, ho sempre definito come “amico”.
Gli voglio bene, a L’Orso.
Arrivo. La fame è insostenibile.
Sento freddo.
Un bambino mi rovescia addosso una coca cola.
Già mi immagino che il concerto sarà pieno di minorenni con gli occhiali grossi, o baffi giganteschi e magliette ironiche.
Chiamo un po’ di amici: nessuno può (o vuole) venire.
Avrei voluto, davvero, che questa serata fosse stata una seratina piacevole.
Inizia il concerto e ad aprirlo è Lambiase.
Cantautore di fortissimo stampo di scuola romana alla Max Gazzè, Fabi e Silvestri.
Ogni canzone inizia con un intro elettronico minimale con sintetizzatori e beat machine, per poi diventare vere e proprie ballad pop rock d’autore.
Un basso elegante e le atmosfere gradevolmente radiofoniche. Quando meno te lo aspetti, Lambiase tira fuori la voce o testi duri e poetici sul dramma della droga o l’abbandono delle amicizie. Ma anche bluesacci di stampo Beatles.
Unica pecca? Le sedie.
E’ pieno di sedie. La gente è seduta.
«Va bene tutto», mi dico, «ma le sedie no».
Cosa fare? Mi rode… ma poi mi viene in mente una cosa.
Scrivo a Mattia su Facebook. Sicuramente, da social media addicted come me, sarà on line.
Gli scrivo una cosa divertente, coinvolgo una nostra amica in comune… e lui commenta che ordinerà alla platea di alzarsi perchè questo, anche se non sembra e non lo è (ma il luogo comune lo impone) è Rock’n’Roll.
Incontro un amico, mi offre una birra. Poi si dilegua con una donna.
Si rimorchia una cifra, con L’Orso.
Quando salgono sul palco, sembrano molto imbarazzati… sembrano… sembrano…sembrano una band normale.
Il pubblico è tanto, saranno il triplo di qualsiasi altra band esordienteromana che sono andato a vedere. E non sono hipster. Sono persone normali, universitari, qualcuno addirittura quarantenne e sicuramente costretto ad accompagnare la figlia.
Mattia dice che, malgrado sembri essere ad un cineforum con la band che musicherà nove ore di film muto, non siamo al cinema e chiede se vogliamo alzarci.
Sono felice, perchè anche se è una stupidaggine, mi dà lo spunto per scrivere che la bellezza della Garrincha e di tutti i gruppi che adesso spopolano in tutto lo stivale…è che insieme al loro pubblico formano una famiglia.
Con giochi, gag, stupidaggini e avventure.
Iniziano con una versione particolarmente sentita di Quanto lontano abiti.
L’Orso è l’unica band in italia che quando parla di social network non sembra ridicola o cool…sembra vera. Perchè è vero che esistono relazioni che succedono a distanza, che può essere di notturni da prendere, da aerei ed Erasmus. La distorsione appena accennata e la batteria che si prodiga in un r’n’b sbilenco fa assomigliare il tutto ad una versione più scapestrata di Beck.
E’ musica per nuovi romantici universitari. Sfigatissimi Scott Pilgrim cresciuti con i baci dei film con Hugh Grant e giocando al Super Nintendo. Parla di queste storie, di amore e non amore, di lavoro racimolato quasi in maniera carbonara, di pomeriggi che dopotutto che ci stai a fare in facoltà a studiare, se fuori c’è il sole (e magari poi fuori, al sole, ti annoi al parco e ritorni dentro)? Ed infatti con Il tempo passa per noi è una bellissima esplosione quasi politica, ma più che altro sociale, su una musica di stampo british di chitarre squillanti e coretti.
Con ‘Ti augurerei il male’ l’Orso prende di mira un’altra situazione da commedia adolescenziale: gli ex, il ritrovarsi, l’essere ancora sulla stessa barca. Sembra di sentire una canzone dei Cure, per via dei fraseggi orecchiabili e la voce tra l’essere strascicata e a ritmo di Mattia.
Ci spiegano che il bassista non è quello “vero” de L’Orso che, per impegni universitari non è potuto venire. Lui è il coinquilino di Mattia che di solito suona il sassofono. Ma, e questo è forse un pregio, dato che le canzoni sono tutte molto semplici ha imparato in un giorno tutte le linee di basso e può aiutare i suoi amici a suonare.
Da quando hanno iniziato, suona in duo questa canzone molto toccante: ‘Invitami per un tè’ potrebbe essere una ballad folk di quelle che da quando vengono pubblicate per sempre ci sarà gente ai falò che ci si ritroverà dentro a suonarla. Ma in questa ballad le lettere si inviano tramite gmail, il thè si prende in chat, le grandi riot si fanno solo se siamo black block…ma il sentimento, il vero sentimento che pervade tutte le malinconie della storia, rimane quello e per sempre lo sarà.
La ripropongono in una versione quasi samba, mentre il pubblico è adorante e si muove a ritmo.
Tra di loro, i componenti dell’Orso, si fanno battute quasi incomprensibili per noi che stiamo sottopalco.
Una volta una mia amica mi ha detto che quando due persone molto affiatate stanno con una terza, e vogliono fare bella figura con quest’ultima, tendono a creare una “bolla” di argomenti che solo loro due capiscono…inconsciamente per foraggiare l’autostima, stimolare la curiosità e nascondere la timidezza. E rendersi uno spettacolo vero e proprio di brillanti battutine e riferimenti. Ed è quello che fanno: sono amici, sono brillanti e timidi, vogliono fare una buona impressione a noi. E ritrovandosi su un palco non possono fare altro che fare quello che gli riesce bene: farci divertire divertendosi.
Gaia, la “polistrumentista timida”, come me si presentò anni fa, aiuta le canzoni della band ad essere così belle con code di xilofono (che, dicono, ha comprato spendendo tutto lo stipendio), violino e tastiere diamonica.
E poi succede una cosa molto divertente e piacevole: l’Orso suona il cantagiro. Non si chiama così, ovviamente, ma ognuno lo chiama come vuole dopotutto.
Si tratta di mettere in fila tutte le canzoni conosciute con il giro di La- Fa Do e Sol. Alle feste, dove ti ritrovi con una chitarra e non sapendo cos’altro fare, suoni questa gag sonora e la gente si diverte e svolti anche delle birre offerte.
Il carosello comprende Bugo con Mi rompo i Coglioni, gli Stato Sociale con Amore ai tempi dell’Ikea, i Perturbazione (anche loro propongono un mash up con la stessa base di tutte le donne famose ispiratrici della canzone italiana) con L’Unica, I Cani con Velleità, Piotta, gli Articolo 31…
Tra gli applausi iniziano a suonare un’altra delle loro canzoni che definirei postmoderne: James Van Der Beek.
I ricordi di un ragazzo degli anni novanta, l’amore, i colori, i sapori…prendono le fattezze umane del nume tutelare che interpretò Dawson nell’omonimo serial.
A chiudere, un monologo che è una carrellata cinematografica su quegli anni fatta di Winner Taco, di succhi di frutta, cassettine registrate dagli stereo di papà.
Il batterista, un bellone ben piazzato con la canotta che a guardarlo diresti “e lui che ci fa a suonare là con questi ragazzetti adoranti di cose nerd?” (Non è vero, Giulio è un simpaticissimo trascinatore e una persona d’oro) si prodiga in una gag sulle chitarre in spia. Mattia è fuori controllo, racconta aneddoti su aneddoti. Dice tutto ed il contrario di tutto. La gente ride, qualcuno mi fa arrivare un’altra birra.
Sempre dello stesso mood è Con i chilometri contro, un’altra ballad di chiaro stampo indie folk con un impianto danzereccio e malinconico. Le trombe, sostituite da un’hipsterissima diamonica, ci portano in un perfetto mood da titoli di coda di un telefilm.
Baci dalla provincia è invece la mia canzone preferita.
Una sfuriata preadolescenziale su due destini che (almeno nella testa di lui) sarebbero dovuti essere legati ed invece c’è chi parte e c’è chi resta.
La provincia, da sempre, è un topos narrativo delle canzoni. Da Guccini a Vasco Brondi, da Ligabue ai Gazebo Penguins c’è chi ha (con più grazia e chi più rabbia) descritto piccoli bar, piccoli amori, piccole idiosincrasie. E questa, come una cartolina che non intende convincere (o peggio denunciare la noia, l’ignoranza, la routine) ma quasi solo salutare, appunto, come una cartolina…è una delle più sincere e belle del genere. C’è chi va a fare l’università e dimentica, ma poi mica così tanto, e chi rimane e inizia a lavorare. E’ impossibile non commuoversi e ridere di questa storia estremamente autoironica.
Dopo un’ennesima gag sul calcio, sui Club Dogo (di cui Mattia una volta, in gioventù, dice, curava i social media) e un accenno di una cover di Tracy Chapman…suonano una canzone che definire politica è poco, ma senza quella inutile supponenza dettata dall’atteggiamento da comizio. O peggio, seguendo il mood molto da-centro-sociale, una canzone su una tragedia umana e terribile però fatta così, senza pensarci, ska o reggae da stonarsi.
Avere vent’anni è più come una puntata di Scrubs o un racconto di una giornata di merda all’aperitivo con gli amici.
E i loro amici, sembra saccente dirlo, ma siamo noi. O meglio, forse, tutti noi siamo simili al tipo di amico che l’Orso ha.
Ha suonato, dice dal palco, più a Roma che a casa sua. Perché il pubblico di Roma è composto da gente, sostanzialmente, che è sottopagata e che ama abbracciarsi.
Ci salutano con una canzone a cui sono molto legati: Ottobre come Settembre.
Un testo che tra quelli di Mattia forse è il più onirico: mette in relazione gli scioperi dei mezzi alle operazioni a cuore aperto, gli incendi con le litigate e le fidanzate che ti lasciano con quelle che collassano dopo la discoteca. Spegnendo gli strumenti piano piano, a turno, rimane solo il coro del ritornello e gli applausi a ritmo.
«Un coro bellissimo all’unisono» penso «un grande classico».
L’Orso ha scritto, e questa è una chicca, una canzone bellissima insieme ad un altro artista dell’etichetta Garrincha chiamata Canzone dell’ukulele.
E’ una fotografia sagace e al vetriolo sugli atteggiamenti della nuova scena di professionisti farlocchi della musica. E’ un finto-rap a cappella con ukulele sotto.
E, come bis, sorpresa delle sorprese, almeno per me, la fanno. Finisce così, con una specie di canzone che si prende in giro da sola, fuori programma, a cappella, loro felici ed esausti, la tensione che piano piano evapora.
L’Orso, tra tutti i gruppi che stanno spopolando, è uno dei pochi che propone uno spettacolo non solo musicale… e nemmeno di cabaret o astruse videoproiezioni…. propone se stesso. Una sincera e bellissima messa a nudo. E noi siamo lui.
Tutti noi siamo gente che suona, si “occupa” di qualcosa perché dire lavorare è una bestemmia, si innamora e adora i telefilm e i dischi di quando era piccolo.
Scendendo dal palco, mi ripresento alla band e ci beviamo molti drink, ci scambiamo aneddoti.
Avrei voluto dire di aver passato una seratina piacevole.
Invece ne ho passata una bellissima e che, sia da volenteroso wanna be professional, mi ha dato molto coraggio.